Delle ragioni che rendono incomunicanti, in Italia, e dunque anche elettoralmente fragili, Verdi e Sinistra radicale, Roberto Della Seta ne analizza diverse e rilevanti (il manifesto, 4/6). Offrendo l’occasione per tornare sul tema decisivo dell’ambiente.

Un tema drammaticamente decisivo che in Italia – nonostante il successo di tante battaglie referendarie, le lunghe lotte territoriali – continua a non ricevere l’attenzione e il consenso politico che invece va guadagnando in tanti paesi d’Europa. Esiste un problema relativo ai caratteri delle cultura italiana, cui anche Della Seta allude, che non è stato mai oggetto di un’analisi storica di ampio respiro. Perché in Italia non esiste neppure una frazione delle cultura e della sensibilità ambientalista che si ritrova in Germania?

Ci sono ragioni storiche mai indagate. Faccio qualche esempio. In un libro di alcuni anni fa, che ricostruisce la storia dei movimenti contro l’avanzare della tecnica e dell’industrializzazione in Germania, dall’età romantica ai giorni nostri (Fortschrittsfeinde? Opposition gegen Technik und Industrie von der Romantik bis zur Gegenwart, 1984) , Peter Sieferle ha ricordato come nel suo paese la critica alla violenta modernizzazione capitalistica di fine Ottocento si sia divaricata in due tronconi politici: la socialdemocrazia, attenta alle ragioni sociali e di classe e il protoambientalismo, con varie componenti, preoccupato di conservare la natura (e talora anche gli assetti sociali).

Ricordo questa notazione non solo per mostrare quali antiche origini abbia l’ambientalismo in Germania, ma soprattutto come esso, in uno dei più importanti paesi d’Europa, abbia da subito costituito una divaricazione rispetto alla cultura del movimento operaio. Il marxismo europeo e internazionale dopo Marx, ha continuato a conservare questa divaricazione delle tematiche sociali da quelle ambientali.
Per ritornare all’Italia e per limitarmi all’ambito delle cultura politica, sono costretto a ricordare che nel ‘900 la sinistra ha goduto di un contributo teorico inestimabile, quello di Gramsci, che l’ha sottratta al dottrinarismo del marxismo leninismo. Eppure Gramsci, grandissimo analista del capitalismo contemporaneo, a cui non possiamo certo rimproverare nulla, non si è mai soffermato sui problemi della natura. Il suo patrimonio teorico ha ispirato per anni la grande politica riformatrice del Pci, ma nessun altro pensiero che assumesse il problema ambientale si è innestato sul suo tronco.

Oggi quanto rimane in Europa della cultura comunista e socialdemocratica fa tutt’uno con il pensiero unico capitalistico su un nodo capitale: la rimozione della natura dal quadro generale e dalle dinamiche dell’economia. Su questo punto la cecità conservatrice della nostra cultura e di gran parte della cultura dominante del mondo tocca vertici davvero clamorosi. Quasi tutti fanno finta di non vedere che il pensiero economico, vale a dire l’attuale, Big Science, keynesiano o neoliberista che sia, la disciplina che domina l’intero spettro culturale del nostro tempo, orienta e difende i grandi interessi sociali, si fonda su una finzione epistemologica: l’inesistenza della natura. Come se produzione e consumo di merci non fossero, tutte, consumo di natura, che non è inerte “materia prima”, ma mondo vivente, equilibri complessi, biodiversità, risorse, clima.

Il pensiero economico contemporaneo è un falso scientifico: empiricamente “falsificabile”, appunto, dal fatto che nessun economista può dimostrare che sia possibile produrre e consumare, cioè l’essenza dell’economia, senza coinvolgere la natura. E allora come si può pensare che gli ex partiti di sinistra assumano tanta radicalità di pensiero e ne traggano le conseguenze sul piano politico? E’ il cammello che deve passare nella cruna dell’ago. Anche per questo continuano a dare una mano, acclamando giorno e notte, la ripresa e la crescita, alla più drammatica assurdità della nostra epoca: stati nazionali in competizione e talora in guerra reciproca, per riversare sempre più merci in un mercato saturo, creando continui bisogni indotti, mentre il pianeta è sull’orlo del collasso.

Eppure proprio il pensiero ambientalista italiano, per merito di Alexander Langer e poi di Guido Viale, con l’elaborazione del concetto di conversione ecologica (che forse dovrebbe dirsi ambientale) ha aperto alla sinistra la grande prospettiva di mettere insieme dinamismo economico e salvezza degli equlibri naturali. E’ un orizzonte teorico, di facile traducibilità politica, che rimette la natura al centro della vita produttiva, come attore cooperante insieme al lavoro umano, e che fornisce alla sinistra l’alfabeto per una nuova narrazione dell’economia. Altrimenti essa deve continuare a parlare di crescita, sviluppo, ripresa, lo stesso linguaggio degli economisti e del capitale. E come è possibile costruire un progetto egemonico, con le parole dell’avversario?