La resa dei conti tra il segretario del Pd e il presidente del consiglio è solo rinviata alla prossima direzione sulle sorti del governo. Capiremo qualcosa di più già la prossima settimana quando la (pessima) riforma elettorale (quella del senato è anche peggiore) andrà alla Camera. Ma in questa fredda guerra di potere, tra Enrico Letta e Matteo Renzi, che somiglia molto alle contese tra partito e governo dei tempi democristiani, alla fine quel che non si vede è quali sarebbero le diversità politiche, di contenuto, tra i duellanti.

Negli anni di Veltroni e D’Alema in quel dualismo c’era almeno una lontana eco di un pensiero politico, di una visione strategica sul modello di partito e di paese. Se oggi dovessimo indicare tre differenze tra Letta e Renzi beato chi le trova. Sul campo resta invece l’incognita del terzo tipo. Come può un governo di piccole intese condurre in porto le riforme istituzionali e le contromisure sociali capaci di far uscire il paese dalla doppia crisi, politica e economica. Come è possibile che un governo di emergenza (così è nato il ministero di Enrico Letta), possa svolgere un compito strategico, ridisegnando l’architettura costituzionale e l’assetto industriale dell’Italia.

In questa contraddizione potrebbe alla fine perdersi ed esplodere il Pd, come è emerso nella direzione di ieri anche se segretario e presidente del consiglio hanno giurato di procedere verso lo stesso obiettivo. Perché il contrasto tra Renzi e Letta, con l’idea di un cambio della guardia a palazzo Chigi, è ormai un vento che soffia forte. E’ un fenomeno mediatico straripante, un’ipotesi strombazzata ogni giorno dal capo di Confindustria che minaccia di scavalcare il presidente del consiglio per rivolgersi direttamente al capo dello stato. E’ una soluzione sussurrata a gran voce sui giornali, nelle anticamere, nelle riunioni di corrente. Fino a far scivolare nella trappola linguistica un dirigente del Pd secondo il quale mettere domani Renzi al posto di Letta «non sarebbe uno scandalo», classica excusatio non petita visto che nessuno parla di scandalo e, anzi, tutti spingono per Renzi premier con i giornali berlusconiani che stilano la lista degli imprenditori “renziani” (praticamente tutti), pronti a sostenere un nuovo governo guidato dal sindaco di Firenze.

Naturalmente la trappola di far replicare a Renzi l’autolesionismo che il partito sperimentò nel ’98, con la crisi del governo Prodi e l’ingresso di Massimo D’Alema a palazzo Chigi senza passare per il voto, sembra troppo scoperta per scattare veramente. Pensare che Renzi possa ritrovarsi con Alfano non sembra realistico. Più verosimile, allora, sarebbe un ritorno alla casella iniziale, quando, dopo le elezioni politiche del 2013, l’allora segretario del Pd andò a sbattere proprio contro le resistenze che gli impedirono di costruire un governo di centrosinistra con il partito di Vendola e il gruppo dei centristi. Sarebbe, per Bersani, un’amara soddisfazione.

Una parte del Pd, con Cuperlo e altri, ieri ha chiesto un nuovo governo (senza tuttavia spiegare con chi). Diversamente l’invito esplicito al segretario è di assumersi la responsabilità di una proposta alternativa. E la meno credibile (elezioni anticipate) sembra la più probabile.