Il nome di Delio Cantimori è spesso, troppo spesso, associato alle polemiche che investono ciclicamente l’interpretazione dei decenni centrali del Novecento italiano, pervasi dalla tensione tra fascismo e repubblicanesimo, tra cattolicesimo e marxismo. Come noto, queste polemiche sono state alimentate dalla diffusione di prospettive revisioniste sul fascismo, sulla Resistenza e sulla Costituzione e talvolta si sono servite anche delle vicende biografiche di Cantimori allo scopo di equiparare gli «errori» del Novecento (il fascismo e il comunismo) con il chiaro obiettivo di lasciare sul terreno, al riparo dalle macerie della storia, un unico attore della politica: il liberalismo. Secondo i revisionisti, infatti, il percorso politico di Cantimori mostrerebbe sia le similitudini tra fascismo e comunismo (che nello storico romagnolo si sarebbero unite nel «nazional-bolscevismo»), sia l’egemonia culturale della sinistra in Italia che ha sempre mirato a nascondere il fascismo del primo Cantimori e a esaltare il suo avvicinamento al Pci. Per fortuna, però, la storia della cultura italiana non è fatta solo di tali polemiche, del tutto inutili per una reale comprensione delle dinamiche storiche: sono infatti ormai numerosi gli studi che, lungi dal parlare di un’improvvisa «conversione» di Cantimori dal fascismo all’antifascismo (e poi al comunismo, prima dell’abbandono del Pci nel 1956), rileggono la sua biografia intellettuale sottolineandone la fasi di passaggio e le amare disillusioni per giungere a individuare nella seconda metà degli anni Trenta il definitivo distacco di Cantimori dall’ideologia fascista.

Il metodo filologico

La storiografia più accurata ha pertanto visto in Cantimori un’intellettuale lacerato dalle questioni filosofiche irrisolte e dalle contraddizioni storico-sociali, in particolare il divario tra le classi dirigenti e le masse; il rapporto tra la cultura, l’etica e la politica; il rinnovamento civico, «religioso» e morale del popolo; la relazione controversa tra Stato e nazione. In questa direzione di recupero della verità storica e dell’effettiva portata dei testi cantimoriani si muove il recente volume Machiavelli, Guicciardini, le idee religiose del Cinquecento (Edizioni della Scuola Normale Superiore di Pisa, pp. 256, euro 10), che ripresenta tre testi di Cantimori pubblicati nel 1966 e 1967 sulla Storia della letteratura italiana coordinata da Sapegno e Cecchi.

I tratti comuni ai tre testi sono numerosi. In primo luogo, come afferma Adriano Prosperi nella sua postfazione, essi costituiscono il primo abbozzo di un’opera sulla storia della vita religiosa e della cultura italiana (opera che non vide mai la luce a causa della morte di Cantimori, scomparso nel 1966 all’età di 62 anni). In secondo luogo, vi emerge chiaramente la concezione cantimoriana del lavoro intellettuale, cioè il suo rifiuto delle generalizzazioni e delle categorie dogmatiche e la sua difesa del metodo filologico contro ogni prospettiva ideologica. In terzo luogo, in tali saggi è ben esemplificata la brillante intersezione tra storia, cultura, filosofia, politica e religione che ha sempre caratterizzato lo sguardo di Cantimori. Ed è proprio su quest’ultimo punto che sembra più interessante soffermarsi.

Il Cinquecento rinnovato

L’intero volume è infatti attraversato dalla profonda empatia cantimoriana nei confronti del carattere fervido e intenso della vita religiosa in Italia ai primi del Cinquecento, soprattutto se per «vita religiosa» si intende la più ampia sfera della vita morale e del sentimento civico. Nella sua appassionata ricostruzione storica dei movimenti religiosi italiani del XVI secolo Cantimori cerca di individuare i punti di svolta nella sensibilità religiosa, le contrapposizioni tra ortodossi ed eretici, l’intersezione tra misticismo e ascetismo e le differenze tra la devozione popolare e quella colta: tutto ciò, allo scopo di sottolineare l’indeterminatezza dottrinaria, o la dimensione teologica sincretistica, dei movimenti religiosi italiani, ben rappresentata dall’ambigua vicenda che caratterizzò il trattatello anonimo intitolato Del beneficio di Cristo, prima letto e diffuso come opera di devozione tradizionale e poi condannato e bollato come eretico. Ma è a prima vista evidente che le simpatie di Cantimori vanno a quei movimenti che fanno del «rinnovamento» la loro parola d’ordine, attivi fino alla convocazione del Concilio di Trento nel 1542 e successivamente indeboliti dal progressivo affermarsi delle tendenze ecclesiastiche più intransigenti, che piegano sempre più il sentimento religioso verso l’«intimismo» e lo allontanano da ogni idea di riforma complessiva della condotta morale e dell’assetto politico.

L’idea di «rinnovamento» è la chiave che Cantimori utilizza per leggere Machiavelli e Guicciardini. Anche in quest’ultimo, infatti, la storia e la politica – al netto del suo malinconico realismo e del suo rassegnato disincanto nei confronti delle «cose umane» – emergono come i luoghi per eccellenza del cambiamento e del movimento: il flusso continuo degli eventi è imprevedibile e non può essere ridotto a schemi determinati o a tradizioni prestabilite. Ma è in particolare in Machiavelli che Cantimori individua un forte nesso tra sfera morale, vita religiosa e «rinnovamento»: Machiavelli è il Lutero italiano proprio perché la religione, per il segretario fiorentino, è un fatto collettivo, storico, sociale, politico che incide profondamente sulla vita e sulla morte delle repubbliche.

La religione civile

Risulta pertanto evidente il carattere innovativo della lettura di Cantimori, secondo cui Machiavelli è ben lungi dall’essere l’alfiere dell’empietà e dell’immoralità: il suo interesse civile e anticlericale per la religione – intesa come forma di moralità pubblica e non come instrumentum regni – si presenta fin dal proemio dei Discorsi e rimane sempre connesso ai temi della virtù civica, della sobrietà dei costumi, del legame sociale e della libertà repubblicana. Per questo motivo l’esempio della religione civile di Roma è ovviamente centrale, per differenza rispetto all’esempio opportunistico offerto dalla Chiesa e dal clero, nell’analisi machiavelliana della decadenza dell’Italia del Cinquecento, che l’irreligione degli ecclesiastici e dei politici, degli aristocratici e del popolo ha ridotto senza forza politica e in preda all’interesse privato: «La rovina è avvenuta perché sono mancati in prìncipi e repubbliche quella virtù, forza, impeto, quell’intelligenza politica e quella sicura cognizione delle leggi reali della politica, prudenza critica, o senno; ma insieme perché sono mancate nelle popolazioni, a cominciare dai consiglieri, cancellieri, segretari fino ai contadini, quella serietà e pubblica solidarietà fondate sulla religione, che costituiscono la solidità dei prìncipi e delle repubbliche e la sostanza dell’energia politica e militare vera, quella di chi sa cogliere la fortuna e di chi sa agire per la patria». Non sembra difficile leggere in queste parole un’amara analisi non solo della storia italiana, ma anche dell’attuale miseria politica.