Quel che è accaduto al Bardo, era nelle cose, ma la società ha gli anticorpi per reagire», dice al manifesto Taoufik Ben Abdallah. Vicepresidente di EndaTiers Monde, Abdallah è nel comitato organizzatore del Forum sociale mondiale, che si svolgerà a Tunisi dal 24 al 28 marzo.

Il Califfato attacca la Tunisia…
C’era da aspettarselo. Dalla Libia, c’è una pressione sempre più forte per trasferire armi attraverso una frontiera troppo difficile da controllare. Gli eventi mediorientali hanno un impatto diretto sul Nord-Africa e, insieme a quel che succede in Mali e in altri paesi, interferiscono nelle dinamiche nazionali. E nel tessuto politico tunisino vi sono forze che non hanno mai chiarito la propria posizione rispetto alla democrazia e al loro rapporto con l’islam. Forze che hanno gestito in maniera diretta e indiretta il potere per tre anni e che hanno lasciato tracce, attecchite negli strati più poveri della popolazione. E qualche centinaio di giovani è stato risucchiato in una dinamica infernale. Per costruire una società democratica abbiamo ancora molto da fare, ma dobbiamo agire in maniera legale, permettere a tutte le forze politiche di esprimersi. Questo significa che non possiamo più avere il controllo totale del tessuto sociale come invece succedeva durante la dittatura. Dobbiamo imparare a gestire gli estremismi, in particolare quello islamico, che s’infiltra nelle sacche di povertà esistenti in diverse regioni del paese e le usa come zone di reclutamento. Nella società esistono però sufficienti anticorpi, come si è visto dalle due manifestazioni seguite all’attentato. E’ il prodotto della nostra storia: come siamo arrivati all’indipendenza, come si sono consolidate certe conquiste sociali, a partire dai diritti delle donne, all’istruzione. Una storia diversa da quella della Libia, che non ha conosciuto uno sviluppo analogo e dove il senso della nazione non si è formato a sufficienza.

L’ambiguità si riferisce a Ennahda?
Certo. Noi abbiamo il più importante partito islamico che è una branca locale della Confraternita dei Fratelli musulmani, fondata in Egitto negli anni ’20. Per loro conta di più la fedeltà alla Ummah, la comunità musulmana nel suo insieme, che quella alla nazione. Un problema non da poco per un popolo e per un paese piccolo che si identifica nella sua storia nazionale. Se cerchi di scardinare questa relazione, crei dei problemi ancora maggiori. Durante i tre anni in cui è stato al potere Ennahda, abbiamo avvertito il tentativo di forzare la società a minimizzare l’appartenenza nazionale in favore di quella globale all’islamismo, e abbiamo pagato uno scotto, per esempio con l’allontanamento dalla Siria in favore delle relazioni con il Qatar e i paesi del Golfo. Quando Morsi è andato al potere in Egitto, hanno creduto di aver vinto, hanno instaurato relazioni di vicinanza con la Turchia, allargato lo spettro del progetto. Quando però Morsi è stato fermato, hanno perso potere e sostegno, e il sogno della grande Ummah islamica si è ridimensionato. Il loro obiettivo è stato sempre quello di imporre la sharia alla società, magari non subito. L’ambiguità con la democrazia si è però evidenziata nel tentativo di forzare su questioni chiave come la libertà delle donne, l’istruzione. Il loro progetto è stato respinto perché il paese ha reagito, per via di quella accumulazione di storia legata a conquiste importanti e alla formazione dello stato moderno nel XX secolo.

Il sentimento di appartenenza universale offerto dalle religioni colma però un vuoto e risponde a modo suo a una domanda reale. L’islamismo radicale dà l’impressione di voler far pagare un prezzo al neocolonialismo e incontra la rabbia degli esclusi. Il vostro orizzonte laico e democratico, più simile all’Europa che al sud, basta per rispondere? La bandiera del socialismo non sventola più in Tunisia?
Se guardiamo alla storia, i democratici hanno fallito, gli stati nazionali si sono indeboliti e le forze radicali hanno preso spazio: certo, adesso siamo in questa trappola. Ma la storia è fatta di corsi e ricorsi e questo cammino di violenza non porta da nessuna parte, la traiettoria democratica degli stati in cui la nazione è una realtà storica può riprendere forza. Da noi, e anche nel Social Forum, c’è un dibattito complesso sul tema dei rapporti sud-sud, in primo luogo con il Medioriente, a cui i tunisini si sentono più vicini. Ma non vogliamo fonderci in una unità artificiale. Ci interroghiamo sulla relazione con l’Occidente, che sappiamo essere squilibrata: benché fossimo contrari, non abbiamo potuto impedire che gli Usa aggredissero l’Iraq, né che Francia e Gran Bretagna intervenissero in Libia. Restiamo dipendenti economicamente dagli Usa e dall’Europa. Abbiamo relazioni organiche molto antiche con l’Europa, a cui è diretto l’80% dei nostri scambi con l’esterno, e dove si trova oltre un milione di tunisini. Siamo consapevoli dell’ambivalenza, delle pressioni dell’Ue per farci aderire a un sistema economico di libero scambio che non ci è favorevole e in cui non siamo sicuri di potere realizzare i nostri obiettivi. La Tunisia fa parte anche del Maghreb e dell’Africa, con cui si dovrebbe avere maggior responsabilità. Dopo la rivoluzione, si è cominciato a discutere sull’appartenenza africana. E poi c’è il contesto maghrebino, marcato soprattutto dalla questione del terrorismo e dal conflitto storico tra Algeria e Marocco sul Sahara occidentale: che sottende il più generale conflitto tra due potenze regionali che hanno fatto scelte diverse nella storia e hanno diverse relazioni con l’Europa. Dopo le umiliazioni subite, dall’esterno e all’interno, più che alle grandi utopie, preferiamo riferirci alla dignità e aprire la strada alla giustizia sociale, permettere ai gruppi meno favoriti di avere un maggior accesso alla ricchezza. Il socialismo, da noi, si è cercato di imporlo con la forza, e non ha funzionato. Questo è forse quel che c’è di più vicino.