Per la prima volta in un mese i combattenti kurdi hanno riconquistato parte di Kobane, nel nord della Siria: «La coalizione internazionale ha combattuto l’Isis in maniera più efficace – dice Nassen, funzionario della città – Prima [lo Stato Islamico] controllava il 30% di Kobane, ora meno del 20%».

C’è bisogno di più raid e di più armi, aggiunge: i miliziani dell’Isis sono ancora presenti a est e sud e gli Stati uniti non condividono l’ottimismo kurdo. Ci si deve preparare alla possibile caduta di Kobane «e di altri villaggi e città, altre porzioni di territorio», ha ripetuto il Pentagono.

Se il supporto aereo pare migliorato dopo il coordinamento con i kurdi sul terreno, alle Unità di protezione popolare (Ypg) di Rojava (i cui cantoni ieri sono stati ufficialmente riconosciuti dal Kurdistan iracheno di Barzani), mancano le munizioni. L’unica via di transito dovrebbe essere il confine turco, chiuso ermeticamente da Ankara.

Ieri il premier Davutoglu ha institito: frontiera chiusa ad armi e uomini, ovvero ai turchi che vorrebbero attraversarla per portare sostegno ai kurdi siriani. «Non vogliamo che i nostri cittadini combattano in Siria – ha detto – Se i siriani vogliono andarci, la frontiera per loro è aperta». Qualcuno ad andarci è obbligato: Ankara sta pensando di deportare in Siria 150 kurdi di Kobane, accusati di avere legami con il Pkk.

La strategia è chiara: Ankara non intende schierarsi a fianco del Pkk, di cui le Ypg sono estensione, e pretende una zona cuscinetto dentro cui infilare i profughi siriani e addestrare le opposizioni anti-Assad. Davutoglu ha messo nero su bianco i confini della buffer zone: «una zona umanitaria sotto il controllo militare», dal Mediterraneo all’Iraq, nelle città settentrionali siriane di Latakia, Hasakha, Jarabulus e Kobane.

E se a Kobane l’Isis viene frenato, è proprio l’Iraq ad assistere in questi giorni alla rinnovata offensiva jihadista. Ieri una nuova ondata di attacchi terroristici rivendicati dall’Isis ha colpito la capitale, target ormai quotidiano della nuova strategia islamista: far cadere Baghdad circondandola all’esterno e destabilizzandola all’interno. Ieri tre autobombe sono esplose nei quartieri sciiti di Dolaie, Talibiya e Shula, uccidendo almeno 47 persone.

Mentre Baghdad viene di nuovo violata, a subire la pressione islamista è la provincia di Anbar: l’Isis ha ormai il controllo del 60% del capoluogo, Ramadi (dove sventolano bandiere nere su stazioni di polizia e uffici pubblici) che avrebbe dovuto essere oggetto di una controffensiva governativa, secondo quanto promesso una settimana fa dall’esercito iracheno. La realtà è ben diversa: numerose unità militari sono state spostate fuori da Anbar dopo la presa della base di Heet. Al loro posto per ora sono dispiegate milizie sciite informali.

Dall’8 agosto solo 52 raid della coalizione hanno colpito Anbar, per lo più concentrati intorno alla diga di Haditha, dimenticando il resto. Manca una strategia univoca e concreta.

Mentre l’Egitto lanciava ieri in Libia la sua personale guerra agli islamisti a sostegno del governo ufficiale di Tobruk bombardando i gruppi jihadisti a Bengasi (dove Ansar al-Sharia ha proclamato il califfato a fine luglio), la Gran Bretagna tornava a puntare sulle opposizioni siriane, una via percorsa da tre anni e totalmente inefficace: il ministro degli Esteri Hammond ha detto che Londra «contribuirà al programma di addestramento delle opposizioni siriane che combattono la tirannia di Assad e l’estremismo dell’Isis».

Un’iniziativa che pare fuori tempo massimo: dal Dipartimento di Stato Usa escono sempre più spesso voci critiche verso i gruppi finora sostenuti. Già un anno fa un rapporto presentato ad Obama definiva inutile, se non dannoso, il sostegno all’Esercito Libero Siriano: «Le conquiste dei ribelli evaporano, le opposizioni implodono». Obama, forse, ha preferito non leggerlo.