Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh (trad. it. di Corrado Badocco, Quodlibet, pp. 292, euro 26). Così si intitola la raccolta di registrazioni di colloqui con Carl Schmitt nel 1971 per un programma radiofonico. All’ottantenne Schmitt viene chiesto di ripercorrere le tappe più significative della sua vita. L’infanzia nella sua famiglia cattolica, gli anni del collegio, la scelta di studiare legge all’università, la decisione di diventare giurista e poi, soprattutto, la sua partecipazione al nazismo. La trascrizione di questi nastri è accompagnata da un cospicuo corpo di note di commento, molto utile per contestualizzare le sue dichiarazioni e per tenere presente il «calendario». Una parola questa ripetuta spesso e con la quale Schmitt intende la minuta cronologia degli avvenimenti privati e pubblici che lo hanno portato a fare o non fare certe scelte.

La questione del «calendario» non è importante soltanto come metodo che Schmitt segue per rispondere, ma anche per scomporre in unità minime e per ciò stesso incrinare il carattere complessivo della domanda più scottante: «Perché ha partecipato al potere»? Collaborare al potere nazista è stata una decisione che Schmitt spiega di aver preso un po’ alla volta, in un contesto pieno di contingenze per cui, secondo lui, è difficile darne ragione complessivamente, in modo netto. In tal senso è interessante notare che, in questi colloqui, Schmitt varie volte tenta di smontare la sua fama di decisionista. Anzi, lui sarebbe stato un teorico della decisione proprio perché nella sua vita avrebbe sempre lasciato alla situazione decidere per lui. «Non io, ma Hitler ha deciso che io collaborassi». Come a dire, può decidere solo chi ha il potere di farlo. E lui, come semplice giurista, non aveva questo potere.

Vi è almeno anche un’altra ragione per la quale è importante il «calendario». Ha a che fare con una parte rilevante della teoria che Schmitt aveva già sviluppato negli anni ’20 e che però costituisce anche l’evento giuridico che inaugura e mantiene il nazismo fino alla sua fine: l’eccezione, lo stato d’emergenza reso possibile dalla legge sui pieni poteri al nuovo cancelliere Hitler. Schmitt fa capire molto efficacemente che con l’emergenza è in gioco il tempo e dunque, ancora una volta, il «calendario». Spiega che dichiarare l’emergenza, sospendere la norma ordinaria, sciogliere il parlamento e non indicare anche simultaneamente quando l’emergenza finisce, la norma ordinaria torna e ci saranno nuove elezioni parlamentari sono modi per accentrare il potere. In altre parole, se non ci si mette nella condizione di un tempo nel tempo in cui legittimità e legalità sono inseparabili (e così eccezione e norma, potere costituente e costituito) si crea la situazione del Fürherprinzip e dello «stato totale». È per questo che non è un caso che il nazismo dal punto di vista giuridico abbia coinciso con uno stato d’eccezione mai revocato durante il regime. Ciò significa che, in un ordinamento parlamentare e democratico che voglia rimanere tale, prevedere una fine dovrebbe essere sempre prevedere un fine. L’eccezione e la decisione hanno senso soltanto se mostrano il loro carattere finito, soltanto se indicano un termine previsto, ma non preventivato a non accadere. Per questo, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare e a ciò che Schmitt ha teorizzato in una fase dei suoi studi, eccezione e decisione hanno senso pieno soltanto nella democrazia, dove il politico segue il tempo ordinario e straordinario di scadenze elettorali, legislature e mandati. Dove il tempo segue il «calendario», per dirla ancora con la parola che piace tanto a Schmitt.

Nemico /amico
Altro momento importante di questi colloqui è quando Schmitt menziona il katechon di San Paolo interpretandolo come forza politica frenante esercitata dall’impero per impedire o ritardare la fine dei tempi. A tal proposito è da tenere presente che Schmitt non è stato sempre un teorico della necessità politica dell’impero. Anzi, nella fase di maggior impegno per giuridizzare il nazismo, impegno che culmina in Stato, movimento e popolo e nell’elaborazione del Furherprinzip, Schmitt è molto critico verso l’impero la cui continuazione egli vede nella chiesa cattolica e, per altri versi, negli Stati Uniti. Che Schmitt dunque abbia, come lui sostiene, «per tutta la vita cercato di risolvere la questione del katechon» legata all’imperium fa sorgere qualche dubbio. Nella sua opera più famosa e cioè Teologia politica (1922) non ve ne è traccia. La stessa cosa avviene nell’altrettanto se non più famoso Categorie del politico dove Schmitt, tra le altre cose, discute con grande enfasi la diade concettuale «nemico / amico». In questa fase Schmitt sembra interessato a individuare quali siano gli organismi istituzionali, le strutture giuridico-politiche in grado di stabilire una sovranità totale. La forza frenante dell’Imperium non sembra però entrare in questione nella sua prima ricerca di fondazione del sovrano. Ancora all’inizio degli anni ’30 quello che Schmitt sta cercando non pare trovarsi nell’Imperium. Si trova invece già dentro la dottrina dello «stato totalitario» che l’Italia fascista già praticava e rivendicava. Schmitt probabilmente attinge da lì e non ancora all’internazionalità dell’Imperium e allo jus publicum europeum come farà soltanto più tardi. In questa fase, è sull’aspetto totalitario che Schmitt sembra focalizzare l’attenzione, come attestano i suoi scritti che si premurano di precisare in modo sempre più dettagliato cosa si deva intendere per «stato totale».

Già nella fase che precede la prima metà degli anni ’30 Schmitt cerca di capire quale organismo politico abbia già messo in atto storicamente strutture totali. Proprio a ridosso della Teologia politica a Schmitt per un po’ sembra persino che una tale sovranità totale capace di incorporare tutto e il contrario di tutto (parla di complexio oppositorum) ce l’abbia la chiesa cattolica. E tuttavia la chiesa cattolica è tale perché deve avere, proprio in quanto cattolica, una dimensione universale. Forse proprio a causa della sua universalità, subito dopo Schmitt abbandona la via del cattolicesimo romano per riprendere a percorrere la strada dello stato, sia in senso istituzionale e giuridico sia come condizione politica nelle forme dello stato di necessità, stato di emergenza, stato di eccezione. Proprio i momenti di ambivalenza dello stato appaiono a Schmitt come quelli in cui giuridico e politico, legale e legittimo, norma e eccezione, procedura e atto convergono sempre in una persona fisica, in «chi decide».

Oltre il Führer
Qui stato, sovrano, autorità e guida (Führer) sono la stessa cosa. Come ci tiene a precisare a un certo punto in questi colloqui, Schmitt è così cosciente di questa ambivalenza da indicarne il pericolo nel «paradosso della rivoluzione legale con premio politico»: la situazione in cui viene a trovarsi il movimento nazionalsocialista nel 1932 in Germania. Per questo Schmitt spiega di aver vivamente sconsigliato di dare l’incarico di cancelliere a Hitler. Questo, invece, è proprio quello che accade. La situazione muta drasticamente e decide anche per lui.
Ma questa non è l’unica metamorfosi di vita e di pensiero cui è sottoposto, come documenta anche un’importante raccolta di suoi scritti ottimamente curata da Carlo Pontorieri: Carl Schmitt, La formazione dell’esprit in Francia e altri scritti sull’Europa e sullo Stato (il melangolo, pp. 132, euro 14). Anche da questi testi appartenenti a periodi diversi, nell’oscillare tra diritto internazionale e sovranità assoluta, si evince la sua continua ricerca di uno stato al di là delle stesse dicotomie del politico e all’altezza di una vera totalità giuridica senza scarti, dove l’eccezione non si distingua dalla norma. Questa insistenza di Schmitt sul «giuridico», soprattutto nel dopoguerra, è correlata all’idea di sé quale giurista d’ufficio, giurista di professione – etichetta alla quale si appella ripetutamente per definirsi (e difendersi).