A Cuba si vedono per aria più palloni di cuoio che palline da baseball. E anche questa è una piccola rivoluzione nella nuova vita globalizzata dell’Isola. O se vogliamo, una controrivoluzione sportiva: da un paio di anni almeno il calcio, che è la specialità della casa dell’America del Sud, dominando la scena sportiva dalla Patagonia al Rio Grande, ha messo sulla sua mappa anche l’Isla Grande. Sempre più bambini giocano corrono dietro a una sfera, secondo alcuni dati finiti sui media americani, fino all’80% entro gli otto anni. Intere giornate su campetti sterrati, color salmastro, delimitati da linee in gesso, reti bucate, spesso a piedi scalzi o con scarpini incerottati. Tanta spensieratezza, occhi che brillano per passione. E poche, pochissime strutture, così come i mezzi investiti sul soccer sull’isola caraibica, finora. Ma lo stesso vanno tutti dietro la palla, magnete finora quasi sconosciuto, poco praticato, sulle spalle imitazioni della maglie ufficiali del Real Madrid, Barcellona. Una divisa originale di un top club a Cuba costa ancora quanto uno stipendio medio. Anche a L’Avana sono arrivati i gol di Leo Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar. Gli assi che per i ragazzi ora valgono quanto o forse più degli eroi nazionali del baseball, del volley o dell’atletica leggera. Ma pare circolino magliette delle squadre italiane, Juventus, Milan, Napoli, Inter. Anche perché diverse scuole calcio con tecnici italiani ( tra cui campani e toscani), hanno fatto qualche tempo fa i bagagli per l’Isola, iniziando a insegnare l’abc del gioco ai ragazzini. Con la Serie A che è sì conosciuta, apprezzata dai cubani, nonostante l’assenza di stelle con dimensione internazionale come avveniva negli anni Ottanta e Novanta, anche se le partite vanno in onda con una settimana di ritardo. In ogni caso, il campionato italiano si trova un passo indietro rispetto alla Liga spagnola, la vera calamita (forse per connessione istintiva tra popoli latini), trasmessa dalla tv pubblica in diretta, così come la Bundesliga (il campionato tedesco). Con il tifo dei più giovani che si divide tra Barça e Real Madrid. Mentre è tiepido l’interesse per la Premier League che domina a piacimento sulla altre leghe europee in Asia, Australia, Stati Uniti. Invece la Champions League è ancora una questione per ricchi, gli eventi in diretta sulle tv satellitari sono garantiti solo dai grandi alberghi. Ed è tale il fascino sui cubani del Real Madrid, uno dei tre-quattro brand internazionali dello sport, assieme a Barcellona, New York Yankees (Major League Baseball) o la Nazionale brasiliana di calcio, che la dirigenza spagnola ha recentemente fatto sapere di voler aprire a L’Avana un campus per bambini. I primi rudimenti, calcio e istruzione, sul modello delle Academy già presenti nella capitale, grazie proprio agli Yankees. Non c’è invece traccia di bambini con la maglia della nazionale cubana, oppure di uno dei club del campionato cubano, 12 squadre, dal 1912. Anche se un contributo alla crescita del football a Cuba è arrivata anche dalla nazionale, che nel programma di disgelo dei rapporti con gli Stati Uniti durante il secondo mandato di Barack Obama alla Casa Bianca anche – o soprattutto – attraverso lo sport, andava in campo lo scorso ottobre contro gli americani a L’Avana. La prima volta dal 1947, la terza nella storia, con gli americani sostenuti da tifosi saliti sull’aereo per Cuba su uno dei voli di linea rimessi in sesto dopo 50 anni di isolamento. Una partita preceduta da un’amichevole sempre della nazionale cubana (i Leoni del Caribe) contro i New York Cosmos, la squadra di Pelé e Beckenbauer, Chinaglia negli anni Settanta, ora in seconda divisione statunitense ma in rampa di lancio verso la Major Soccer League. Insomma il processo di avvicinamento al pallone è lento ma continuo, che fa presa sui più giovani, mentre il baseball resta lo sport più popolare tra gli over 40. Con il calcio che comincia a scardinare quel modello di educazione sportiva scolastica, la storica Eide (Escuela de Iniciacion de Deportiva Escolar) radicato durante l’era Fidel Castro, con il Lider Maximo che concedeva spazio solo al baseball appunto, alla pallavolo, all’atletica leggera, pugilato. Una visione strategica, lo sport ritenuto strumento indispensabile per giocarsela alla pari durante il lungo embargo con gli americani ai Giochi olimpici, ai Giochi panamericani. E che ha portato risultati storici. Nel 1976, dopo l’oro nei pesi massimi ai Giochi di Montreal di Teofilo Stevenson – forse il più forte pugile cubano di sempre – e di Alberto Juantorena nell’atletica leggera (800 metri), Fidel era all’aeroporto di L’Avana a salutare e ringraziare i due eroi. ll baseball aveva un posto speciale tra le passioni del Comandante, un mancino con un grande allungo nel lancio di palla, quando era ragazzo. E non solo perché il figlio Tony per anni era stato il medico sociale della nazionale caraibica. Ma ora i fuoriclasse cubani con mazza e berretto sull’Isola restano ben poco. Subito verso gli Stati Uniti, a strappare contratti a svariati zeri, verso la grandezza, la gloria. Verso l’universo professionistico, un flusso senza sosta da quattro anni, dalla ricomparsa del professionismo, abolito in era castrista. Ora non c’è più il divieto per gli atleti di trasferirsi all’estero, a patto che versi le imposte dei suoi guadagni al governo cubano. Anche se Fidel approvava poco l’esodo dei chicos, i suoi ragazzi con berretto, verso lo sport occidentale. Così i talenti dell’Isola sono finiti nelle franchigie della Major League Baseball, impoverendo però il torneo nazionale e anche la stessa nazionale di baseball, che non può contare sui campioni che vanno a giocare negli States, non ancora ritenuti degni di rappresentare il Paese. Il dato che certifica la discesa del baseball è la sola partita settimanale trasmessa dalla tv di stato, in differita. Quindi, c’è parecchio margine di crescita per il calcio, riabilitato da Castro solo nell’ultima fase della sua vita per l’amicizia che lo legava a tripla mandata a Diego Armando Maradona, per fissarsi nelle coscienze collettive dei cubani. Ma dall’Isla Grande è partito verso altri Paesi anche qualche calciatore cubano, ulteriore segnale di avvicinamento tra calcio e l’Isola. Lo scorso anno Maikel Reyes e Abel Martinez, due onesti mestieranti del pallone, finivano in Messico, in seconda categoria, al Cruz Azul. Una prima assoluta, mai nessun calciatore era partito verso altre realtà calcistiche. E recentemente anche un altro è finito nella vicina Florida, al Miami Fc allenato dall’ex difensore di Lazio e Nazionale italiana, Alessandro Nesta. Ovviamente, sarà solo uno step in avanti della Nazionale o la comparsa su un campo verde del Messi o del Cristiano Ronaldo cubano a trascinare il movimento. Sedimentando il calcio ancora di più tra i ragazzini, alzando il livello della competizione sull’Isola e richiamando l’interesse delle multinazionali, sempre pronte a investire su mercati incontaminati.