«Capitale morale dell’antifascismo toscano» fu la definizione che Giorgio La Pira coniò per Empoli, pensando alle persecuzioni che vessarono la città durante la dittatura. Per tacere delle numerose vittime, fra cui va annoverato Carlo Castellani, ex calciatore dell’Empoli, deportato e morto a Gusen I, un lager satellite di Mauthausen. A lui è intitolato lo stadio empolese, unico terreno di gioco delle serie professionistiche intestato a un martire della barbarie nazifascista. Castellani era nato a Montelupo Fiorentino nel 1909, proprio quando emise i primi vagiti l’Empoli Fc, il cui terreno di gioco era situato accanto all’Arno, dove si smarrivano palloni su palloni, il cui costo rappresentava la prima voce di spesa del neonato sodalizio sportivo. I primi calciatori dovevano apparire piuttosto bizzarri agli osservatori di allora, perché giocavano con i piedi il «gioco del pallone», che nella provincia fiorentina esisteva già dal XIX secolo ed era del tutto diverso. Si trattava del tamburello, o «pallone a bracciale», una specialità sponsorizzata dal regime fascista quale esempio autoctono di pratica sportiva e nella quale gli empolesi avevano conquistato due titoli di campioni d’Italia negli anni Trenta. Castellani marinava spesso la scuola per coltivare la sua passione calcistica, sbocciata senza essere alimentata dagli uomini di casa: il padre David, un socialista turatiano che non aveva preso la tessera del fascio dopo l’avvento di Mussolini, era infatti troppo assorbito dalla gestione della segheria di famiglia. La relativa agiatezza, tuttavia, consentì a Carlo di svilupparla, quell’innata passione, in un periodo nel quale il mestiere di calciatore non saldava le bollette. Anzi, spesso era lui che pagava la carrozza ai compagni per le trasferte. L’ascesa fu folgorante. Castellani esordì a soli 16 anni e la stagione dopo disputò l’intero torneo di Terza Divisione, l’attuale quarta serie. Fu una marcia trionfale per l’Empoli, che conquistò la promozione anche grazie alle 16 reti dell’adolescente montelupino. Agendo – si direbbe oggi – da attaccante aggiunto o da trequartista, Castellani mantenne sempre una certa confidenza con il gol e addirittura ne segnò cinque in una sola partita, un record che all’Empoli aspetta ancora di essere eguagliato. Degli azzurri, sarebbe stato il cannoniere principe con 61 reti in 145 partite, prima di essere superato da Tavano e Maccarone. Castellani divenne un pezzo pregiato del mercato e approdò in serie A nel 1930 con la maglia del Livorno. Vi giocò una sola stagione e, dopo una parentesi al Viareggio, tornò all’Empoli, dove chiuse la carriera nel 1939 in serie C. Nel frattempo, si era completata la fascistizzazione della società sportiva, ribattezzata Dopolavoro Interaziendale Italo Gambacciani, dal nome di un fascista sedicenne, ucciso nel ’21 nei frequenti scontri fra gli squadristi e le milizie rosse, come gli Arditi del Popolo. L’anima antifascista della città, dimostrata nel 1934 anche dalla vittoria dei delegati comunisti alle elezioni sindacali dei vetrai, riemerse dopo lo sbandamento seguito all’armistizio. I primi episodi di resistenza armata punteggiarono le colline della Valdelsa nel febbraio 1944, cui seguì l’adesione allo sciopero generale proclamato dal CLN. La riuscita agitazione del 4 marzo preluse al rastrellamento avvenuto fra il 7 e l’8 marzo, del quale rimase vittima Carlo Castellani insieme ad altri 110 sventurati. Nelle Case del fascio si stilarono le liste di nominativi da inviare in Germania, per rispondere all’ordine di Adolf Hitler di mettere a disposizione delle SS il 20% degli scioperanti. I fascisti intendevano altresì fiaccare il morale delle nascenti formazioni partigiane e pure vendicarsi di presunti torti, sia politici che personali. In piena notte, andarono dimora per dimora, fornendo ai malcapitati e alle famiglie rassicurazioni su un immediato rilascio. Nessuno oppose resistenza, qualcuno anzi si offrì di seguire i congiunti e molti si avviarono ignari. All’alba, il giro era quasi completo. Mancava solo David Castellani e il convoglio che recava la morte si diresse verso la sua abitazione. Al posto del padre ammalato, si affacciò alla finestra Carlo, che scorse fra gli scherani un amico di lunga data. Si tranquillizzò e li seguì in caserma. Non lo videro più. Durante il tragitto verso Firenze, qualcuno suggerì di scappare e Carlo, ancora atletico, sarebbe stato certo capace di saltare dal pullman e far perdere le proprie tracce tra la vegetazione che fiancheggiava le rive dell’Arno. Ma rinunciarono, sperando che tutto sarebbe andato per il meglio. Invece, furono subito stipati nei vagoni piombati al binario 6 della stazione di Santa Maria Novella e tre giorni dopo giunsero in Austria. Ordini perentori e secchi, seppur non compresi, li spinsero fuori dai vagoni, nel freddo pungente, e verso una salita che li condusse in cima a una collina, dove spuntavano le lugubri torrette del lager di Mauthausen. Passarono per il rituale tristemente noto: stazionare nudi alle intemperie; subire le docce gelate e bollenti davanti ai latrati minacciosi dei cani e alle risa dei loro aguzzini; dormire in fetide baracche affollatissime; patire umilianti e disumane punizioni per ogni minima mancanza; faticare oltre i limiti della sopportazione fisica; degradare progressivamente a una condizione sub-umana e litigare furiosamente per una tazza di ignota brodaglia o un tozzo di pane secco; sopportare la patente ostilità degli altri disgraziati, dei francesi, dei russi, degli spagnoli, che avevano validi motivi di astio verso gli italiani; anelare a un rapido trapasso per porre fine a tali strazi indicibili. Fu breve la sofferenza di Castellani: contrasse la dissenteria e la sua morte fu datata 11 agosto 1944, come riferito da uno dei pochissimi sopravvissuti.