Ieri al Cairo è terminato, dopo oltre 80 udienze, il «maxiprocesso» nei confronti di 739 imputati accusati di vari reati in relazione al violentissimo sgombero, avvenuto il 14 agosto 2013, delle tendopoli allestite dalla Fratellanza musulmana in piazza al-Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda per protestare contro il colpo di stato del 3 luglio e la deposizione del presidente Morsi.

Fu il peggiore massacro della storia recente egiziana, con non meno di 900 manifestanti uccisi (altre fonti parlano di 1200), 30 dei quali asfissiati dal lancio di gas lacrimogeni all’interno delle camionette in cui, dopo l’arresto, erano stati fatti salire. Morirono anche sei membri delle forze di sicurezza egiziane.

Ancora maggior fu il numero degli arrestati, in una sorta di pesca a strascico eseguita dalle forze di sicurezza egiziane al termine della quale finirono in carcere anche manifestanti pacifici (come Ibrahim Halawa, cittadino irlandese, che Amnesty International e il governo di Dublino hanno impiegato quattro anni a far riconoscere innocente), semplici passanti e giornalisti. Tra questi ultimi, Mahmoud Abu Zeid (alias Shawkan), che era lì a fare il suo lavoro di foto-giornalista per conto dell’agenzia Demotix.

I 739 imputati sono stati processati collettivamente per 17 omicidi, e altri reati tra cui «raduno illegale», «istigazione a violare la legge» e «partecipazione ad atti di violenza».

Le sentenze, alla fine di quello che Amnesty International ha definito un processo «vergognoso», sono state pesantissime: 75 condanne a morte, 47 condanne all’ergastolo e altre 612 condanne a pene comprese tra cinque e 15 anni.

Tra gli imputati giudicati colpevoli c’è anche Shawkan, che è stato condannato a cinque anni. Avendo già trascorso in carcere un periodo di tempo superiore alla condanna, cinque anni e 25 giorni, dovrebbe essere presto rilasciato. Il suo avvocato è fiducioso che la cosa avverrà in pochi giorni. Shawkan è comunque atteso da comunque altri cinque anni di libertà condizionata. Naturalmente, in un paese che rispettasse la libertà di stampa, non avrebbe trascorso neanche un minuto in carcere.

Non un solo membro delle forze di sicurezza, per non parlare dei loro superiori all’interno delle istituzioni egiziane, è stato mai chiamato a rispondere di fronte alla giustizia per la «Tienanmen egiziana».

Per maggiore tranquillità, nel luglio 2018 il parlamento ha approvato una legge che garantisce la più completa immunità dai procedimenti giudiziari agli «alti ranghi delle forze armate» per «ogni atto commesso durante lo svolgimento del proprio dovere nel periodo compreso tra la sospensione della Costituzione del 3 luglio 2013 e la convocazione di questo parlamento, il 10 gennaio 2016». Impunità completa, dunque.

L’Italia si trincererà dietro la posizione abolizionista dell’Unione europea, che esprimerà contrarierà nei confronti delle 75 condanne a morte.

Da un paese come il nostro, che tanto va fiero degli ottimi rapporti col governo egiziano, difficile aspettarsi di più. Del resto, la decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo venne presa, lo scorso anno, esattamente nel giorno in cui ricorreva il quarto anniversario dei massacri del 14 agosto 2013. Un segnale chiaro di disinteresse verso le violazioni dei diritti umani: non il primo, non l’ultimo.
*Portavoce Amnesty International Italia