Al tempo della crisi dell’Unione Europea riprendono forma arcaici fantasmi. I vari nazionalismi, soffocati, in apparenza, dalle tragedie della prima metà del XX secolo, e risuscitati inopinatamente già all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, si aggirano, come tutti gli spettri, incutendo timore. E, senza eccezione alcuna, si nutrono avidamente di storia: la usano come ricettacolo della tradizione e luogo del rispecchiamento, e la raccontano di conseguenza. È facile che questi riferimenti al passato assumano forme paradossalmente anacronistiche, e spesso modalità virulente. Compaiono però, talora, anche fantasmi dal volto mite e dall’eloquio civile.

In Inghilterra, per esempio. Da qualche tempo si assiste oltremanica a un singolare fenomeno di rimobilitazione del passato in chiave direttamente politica. L’occasione, all’indomani della vittoria dei conservatori alle ultime elezioni, è l’avvio del dibattito sulla revisione dei rapporti tra Regno Unito e Unione europea (con il referendum popolare sullo sfondo). In tale dibattito si colloca un articolo di David Abulafia – specialista riconosciuto di Mediterraneo medievale – apparso nel maggio scorso sul sito di History Today, che introduce all’iniziativa di un gruppo di intellettuali e di storici britannici desiderosi di fornire argomenti «neutrali» alla discussione.

Un carattere insulare

Al centro dell’articolo e del «manifesto» ufficiale degli «Historians for Britain» (così autodefinitisi: http://historiansforbritain.org), è però un tema che difficilmente potrebbe essere definito neutrale: nientemeno che il distinctive way britannico, l’alterità rispetto al Continente, tante volte orgogliosamente rivendicata. Una differenza radicata – si dice – nella storia del mondo britannico (si parla a nome anche della Scozia e del Galles e si adopera il termine Britain) fin dal 1066, l’anno della conquista normanna e della nascita della corona inglese. In virtù di tale differenza, nel regno – così si legge – non hanno attecchito gli esasperati nazionalismi che hanno funestato il continente; fascismo e antisemitismo sono rimasti estranei; e insomma «il carattere politico britannico è stato più moderato di quello della maggior parte dei paesi europei». La continuità del «carattere» britannico si rifletterebbe nelle sue istituzioni: il parlamento attuale ha le sue radici nel XIII secolo, e il sistema giuridico (il common law) si è andato lentamente consolidando senza scosse e senza i traumi dell’innovazione rivoluzionaria (costituzione scritta più codificazione) conosciuta da quasi tutti gli ordinamenti continentali.

Nel dibattito che si è subito acceso molti non hanno avuto difficoltà a riconoscere i lineamenti del fantasma; proviene chiaramente da quella cultura wigh che tra XVIII e XIX secolo elaborò un codice della storia inglese perfettamente funzionale al ruolo egemonico che il Regno unito stava conquistando come prima potenza coloniale e industriale. Al centro era appunto l’esaltazione dell’eccezionalismo britannico fondato sulla costruzione, passo dopo passo, a partire dal pieno medioevo (l’anniversario della Magna Charta è stato pubblicamente celebrato or ora), di una miracolosa costituzione politica (materiale, non scritta) capace di preservare le libertà individuali, di frenare le derive autoritarie dei monarchi e di assicurare così ai loro fortunati sudditi una solida prospettiva di progresso e di prosperità. Non della straordinaria continuità della storia britannica si tratta quindi, sostengono ragionevolmente i critici, ma del profilo del nazionalismo inglese, specifico nei suoi contenuti, ma i cui fattori costitutivi, ironicamente, funzionarono tra Sette e Ottocento come quelli di tutte le ideologie nazionali europee.

È stato facile quindi, in una sorta di contromanifesto, ricordare che la storia è stata raccontata molto diversamente negli ultimi decenni, rilevare tutte le incongruenze degli «Historians for Britain», e i loro incredibili silenzi sui momenti della storia inglese che smentiscono la leggenda della continuità (dalle sanguinose guerre civili del Seicento alle conseguenze sconvolgenti del processo di industrializzazione).

Il merito storiografico finisce così per avere un rilievo tutto sommato modesto. Il senso comune reiterato dal manifesto (coagulato nei «caratteri originali» della storia ininterrotta di una nazione) sarà forse sopravvissuto in alcune nicchie dell’opinione pubblica di destra. Ma è difficile credere che una qualche identità britannica, a lungo dormiente o conculcata, stia reagendo alle ingerenze sempre più insopportabili delle istituzioni europee. Per capire cosa succede occorre piuttosto guardare dall’altra parte, alla crisi prolungata del processo di integrazione, e agli effetti che comincia a produrre. Contrariamente a ciò che ritengono gli estensori del manifesto, cioè, è l’indebolimento dell’Europa che favorisce l’apparizione dei fantasmi nazionalisti, in Inghilterra come altrove. È la sua crisi a generare le condizioni culturali, politiche e psicologiche della, momentanea si spera, riattivazione di un repertorio di stereotipi di cui la storiografia ha definito l’inconsistenza ma di cui non può certo impedire il propagarsi; ed è in questa crisi, infine, che il rapporto passato-presente cambia segno.

Il vessillo fantasma

Il tema del comune passato europeo aveva avuto un suo momento di intensa, quanto equivoca, attualità, se pensiamo al dibattito che accompagnò (tra il 2002 e il 2005) il progetto (fallito) di costituzione: sono proprio le onde sismiche propagate dalla rottura del processo costituente a spingere verso il ripristino di temporalità desuete e di partizioni molto tradizionali: tra i popoli e le loro specifiche storie e tra gli stati che si costituiscono attorno al loro farsi nazione, e che segnalano così il distinctive way di ciascuno di essi alla modernità. È in questo senso che il fallimento del processo di unificazione riesuma il cadavere dello stato-nazione: l’affaticata ricerca della chiave giuridico-politica più idonea al rilancio della costruzione dell’Europa, viene sostituita dal pathos dell’identificazione neo-nazionale.

Nel manifesto antieuropeo degli «Historians for Britain» (basta rimuoverne la fragile patina «professionale») appare così il sintomo di un fenomeno diffuso. Nulla vieta di innalzare vessilli neonazionali (è una pratica corrente di questi tempi); armando il più contundente dei dispositivi identitari, quello che richiama la presunta oggettività del riferimento al passato, il fantasma smette però la maschera mite e rivela il volto poco amichevole di un’autorità morale alla quale è stato affidato il compito, tutto politico, di definire un regime di verità.