«Sfocata o meno, nitida o meno, una fotografia buona è una questione di proporzioni, di rapporti tra neri e bianchi»: così Henri Cartier-Bresson descriveva il suo approccio al mestiere di fotografo. La mostra The Mind’s Eye a cura di Simona Perchiazzi (al Pan di Napoli fino al 28 luglio), proposta dall’associazione Acm in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e Magnum Photos, raccoglie cinquantaquattro scatti realizzati dal fotografo francese tra gli anni ’30 e gli anni ’70. «Il percorso – spiega Andrea Holzherr, responsabile mostre dell’Agenzia Magnum – raccoglie le foto che il reporter riteneva fossero le sue migliori, fino alle ultime realizzate prima del ritorno alla sua prima passione, la pittura e il disegno».

RITRATTO BRESSON
Ritratto di Henri Cartier-Bresson

Il percorso ruota intorno ai due differenti approcci che hanno caratterizzato il suo modo di ritrarre la realtà. L’inciampo nell’evento, impresso nel momento in cui accade, come ad esempio in Dietro la Gare Saint-Lazare del 1932: un uomo salta mentre la sua immagine si riflette sull’acqua che ricopre la strada. Oppure c’è «l’attitudine del cacciatore appostato in attesa di cogliere la preda – prosegue Holzherr -. Come nella foto scattata a L’Aquila nel 1952, dove l’importante è la composizione: cercava un luogo propizio e poi attendeva che passasse la vita all’interno». A Siviglia nel ’33, la caccia comincia appostandosi davanti a un enorme buco in una parete. Le crepe costituiscono la cornice della scena che accade davanti: un gruppo di ragazzini gioca tra le macerie, uno di loro sorride mentre scappa via sulle stampelle.

Nel 1934 Cartier-Bresson accompagna una delegazione di archeologi francesi in Messico. Quando finiscono i fondi la missione torna in patria ma lui decide di rimanere: non ha soldi, vive nei bassifondi e ritrae i suoi vicini di casa, poveri, prostitute, emarginati. «La curiosità è essenziale alla fotografia – spiegava il reporter -. Ma la sua spaventosa controparte è l’indiscrezione, che è una mancanza di pudore».

SPAIN. Valencia. 1933. Inside the sliding doors of the bullfight arena.
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Dopo la Seconda guerra mondiale il suo atteggiamento cambierà: cesserà di essere un artista preoccupato dell’estetica dell’immagine per dedicarsi alla documentazione degli aspetti sociali. Nel 1947 è tra i fondatori dell’Agenzia Magnum. Realizza scatti rimasti nell’immaginario come gli ultimi giorni del Kuomintang a Pechino nel 1949; una donna quasi scheletrica del New England nel 1947 avvolta nella bandiere a stelle e strisce; la mensa degli operai che stanno realizzando l’Hotel Metropol a Mosca nel 1954.

Uno degli scatti più celebri è del 1975. Dalle grate di una cella di una prigione Usa, sbuca una gamba e un braccio nudi, con la mano stretta a pugno: «È un soggetto molto importante per Cartier-Bresson – conclude Holzherr –. Durante la guerra aveva partecipato alla resistenza: imprigionato dai tedeschi, era scappato tre volte. Negli anni ’80 un amico gli propose un workshop in un carcere nella periferia di Parigi, non amava insegnare ma quella volta accettò. Quando gli chiesero cosa avesse spiegato ai detenuti della fotografia, rispose che aveva mostrato come realizzare una mappa per evadere».