Quando il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler ordinò il rastrellamento di 1.259 ebrei nel ghetto di Roma quel 16 ottobre 1943, aveva in mano le schede del censimento che Mussolini volle realizzare dopo aver promulgato le leggi razziali cinque anni prima.

Quelle schede, che contenevano dati anagrafici ed indirizzi di domicilio, erano scritte a macchina. Un dettaglio solo apparentemente di poco conto. I deportati arrivarono ad Auschwitz, in Polonia, qualche giorno dopo. Confluirono, e quasi tutti scomparvero, nel sistema concentrazionario e genocidario nazista.

Fu un dispositivo gigantesco che non gestiva solamente l’eliminazione di massa ma anche la sottrazione e registrazione di ogni bene in possesso degli internati ed il lavoro di coloro, giovani e meno giovani, che fossero abbastanza in salute per valorizzare il capitale.

Per gestire tutte queste operazioni e ancora prima, per la schedatura di milioni di ebrei, zingari, disabili, comunisti, socialisti, omosessuali e slavi col censimento della popolazione tedesca voluto da Hitler nel 1933, non sarebbero di certo bastate le macchine da scrivere e nemmeno la proverbiale efficienza tedesca.

La Germania nazista si era infatti dotata della migliore tecnologia informatica allora esistente. Non esisteva ancora l’elettronica ma le informazioni venivano registrate su schede perforate e rapidamente processate da grosse e pesanti selezionatrici elettromeccaniche.

Tutta la tecnologia necessaria (schede, macchine perforatrici, macchine selezionatrici e la manutenzione) venne fornita ad Hitler dalla statunitense Ibm (International Business Machine) attraverso la sua sussidiaria Dehomag.

A partire dal grande censimento del 1933 la Germania era diventata il maggiore cliente della Ibm dopo gli Stati Uniti e lo stesso Thomas J. Watson, il fondatore della multinazionale statunitense, si recò più volte in Germania per seguire il lavoro della Dehomag.

Un grande affare destinato a chiudersi con lo scoppio delle ostilità tra Stati Uniti e Germania nel 1941? Solo formalmente: Watson restituì ufficialmente alla Germania l’“Ordine dell’Aquila tedesca”, un alto riconoscimento nazista attribuitogli da Hitler in persona, mentre la Dehomag cessò di essere una controllata della Ibm.

Ma le schede perforate, che venivano prodotte esclusivamente negli Stati Uniti, continuarono ad arrivare in Germania, lager compresi, attraverso triangolazioni con succursali all’estero. I profitti vennero poi raccolti dalla Ibm a guerra conclusa, quando la Dehomag tornò ad essere una azienda controllata della grande multinazionale.

Questa storia è stata raccontata nel dettaglio in un ben documentato libro inchiesta di Edwin Black, L’IBM e l’Olocausto, pubblicato da Rizzoli nel 2001 ed oggi semplicemente introvabile in Italia. È una storia clamorosa e terribile che dovrebbe essere ricordata come necessaria ogni volta che si parla di sterminio e deportazione.

Ma ciò infrangerebbe la rassicurante rappresentazione mainstream che dipinge il nazi-fascismo come una personificata vicenda di follia e crudeltà. Certo di follia e crudeltà si trattò ma tecnicamente sostenute e trasformate in stratosferici e modernissimi profitti.

Soprattutto è una storia che – pur non avendo l’Olocausto paragoni possibili quanto a crimine – ci parla del nostro presente e di come la follia e la crudeltà di guerre d’aggressione che si traducono in nuovi genocidi (come quello del popolo yemenita e non solo) – siano disinvoltamente sostenuti da una fiorente industria occidentale; e più in generale di come le grandi multinazionali, senza nessuna delega democratica o acclamazione popolare, siano ancora in grado di determinare indisturbate la storia e di vivere al di sopra di essa, impunite nonostante le tremende responsabilità e compromissioni. Oltre qualsiasi Norimberga.