«L’hijab è obbligatorio. Serve a preservare la dignità delle donne. Per far applicare la legge abbiamo 7mila mohtaseb, ispettori esperti nella sharia. Questa legge pone le basi per il ritorno a scuola delle ragazze. Avverrà molto presto, se Dio vuole». Sono giornate impegnative per Mohammad Sadiq Aqif, il portavoce del ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

DA GIORNI nel suo ufficio si alternano giornalisti locali e diplomatici stranieri. I primi cercano dettagli. I secondi fanno pressioni, chiedono conto. Poco prima che arrivassimo noi, da questo ministero nel quartiere centrale di Shar-e-Now è uscita Deborah Lyons, a capo di Unama, la missione Onu a Kabul che esprime «profonda preoccupazione per la continua mancanza di inclusività e la recente traiettoria di tensioni interne», ma intende «continuare il dialogo con i Talebani per sostenere la popolazione».

L’ufficio del portavoce è buio, senza elettricità come tutta la città, al primo piano di uno degli edifici che prima ospitavano il ministero per gli Affari femminili, poi abolito dai Talebani. I militanti che controllano l’ingresso sono poco più che adolescenti. Vengono dalla provincia di Logar. Sulle mura esterne, da mesi campeggia un cartello. Ai lati, due donne a mezzo busto. L’una con il chadorì, l’altra con il burqa. Entrambe a volto coperto.

«L’hijab è segno di modestia», recita la scritta. Il portavoce ci fa aspettare, poi si accomoda. Alle sue spalle, la bandiera dell’Emirato. Spiega il decreto: «L’hijab è ora obbligatorio per tutte le donne. È diventato illegale non indossarlo. Per hijab intendiamo qualunque vestito che non sia troppo stretto, che non lasci vedere le forme. Va bene il burqa, il chadorì, un lungo telo che copra il corpo, anche un vestito fatto in casa». Lo scopo? «Preservare la dignità delle donne, creare un ambiente sicuro, porre le basi affinché le donne possano istruirsi. Nella nostra cultura rispettiamo le donne». Raccontiamo a Sadiq Aqif che in questi giorni ogni donna che abbiamo incontrato ha rivendicato il diritto di scegliere da sé, contestando la loro decisione.

REPLICA che la cultura afghana rispetta le donne. Rispettarne la libertà di scelta, è un’altra cosa. «Non abbiamo alcun problema con le donne che indossano l’hijab. Quanto alle altre, è nostra responsabilità fare in modo che lo facciano. Governiamo il Paese, siamo musulmani, dobbiamo applicare la legge di Dio». Il decreto prevede punizioni per fratelli, mariti, figli, nel caso che le donne non obbediscano. «Non puniamo le donne perché nella nostra società sono molto rispettate. Non è corretto fermarle per strada, in giro per la città, portarle davanti alla corte o nei nostri uffici. In altri Paesi islamici, quando le donne commettono crimini vanno in carcere e davanti a un giudice. Noi non lo facciamo perché seguiamo gli hadith del Profeta».

Un’ora prima di incontrarlo, una scrittrice ci ha raccontato che, venendo al nostro appuntamento, è stata fermata dai Talebani, non lontano da Shah-e-do-Shamshira, la «moschea del re delle due spade» dove nel marzo 2015 la 27enne Farkhunda Malikzada è stata assalita da una folla di uomini, trucidata e bruciata viva sul greto del fiume perché accusata di aver insultato il Corano. Una stele, poco distante, la ricorda. «Guardami, sono coperta da capo a piedi, tranne il viso. Eppure i Talebani mi hanno attaccato oggi – ci ha raccontato la scrittrice – Ho provato a rispondergli a modo, ma mi hanno detto di star zitta e andarmene».

PER IL PORTAVOCE del ministero, l’Emirato «non vuole forzare nessuno». Ma «il ministero dispone di 7mila funzionari. Sono esperti di sharia, di giurisprudenza islamica. Sono molto bravi. Sanno come applicare la legge». Verranno dislocati su tutto il territorio nazionale.
Alcuni, con indosso un camice bianco da medici, li abbiamo già incontrati a un posto di blocco, qui a Kabul. I mohtaseb nella storia dei Paesi islamici hanno fatto da ispettori, controllori, spesso scelti direttamente dall’emiro di turno. L’ultimo decreto porta la firma di Haibatullah Akhundzada, la «guida dei fedeli». Mohammad Sadiq Aqif spiega che il decreto è nato collegialmente: «Alcuni religiosi di alto livello si sono riuniti, ne hanno discusso a lungo. Poi hanno presentato la proposta all’Amir ul-Mumineen, che l’ha condivisa e ha chiesto al nostro ministero di renderla legge».

Il ministero di cui Sadiq Aqif è portavoce è centrale nella geografia dei poteri del nuovo Emirato. Da qui passano decisioni cruciali per l’intera società afghana, che i Talebani dimostrano di non conoscere e non voler ascoltare. Nella delicata transizione del movimento dalla guerriglia alle istituzioni, è uno dei ministeri che più ha espresso egemonia e indirizzo politico. Lo testimonia un trasloco: secondo alcune nostre fonti, entro un mese il ministero verrà trasferito nella sede del Parlamento della vecchia Repubblica islamica.

PARADOSSI DELLA STORIA: è stato ricostruito con i soldi di New Delhi, nemica giurata di Islamabad, storica sponda regionale dei Talebani, anche se oggi i rapporti sono turbolenti. Sadiq Aqif occupa dunque una poltrona importante. Tanto da poter respingere al mittente le critiche dei tanti afghani e afghane che contestano dicendo: il paese è in tracollo e i Talebani pensano all’abbigliamento delle donne. «Come ministero, abbiamo il compito di lavorare per diffondere l’Islam, non quello di creare posti di lavoro o di garantire la sicurezza, che è compito del ministero degli Interni. Il governo è fatto di tanti ministeri. Ognuno fa il suo dovere».

Pur egemone, Sadiq Aqif fa parte di una componente dei Talebani che non sarebbe maggioritaria nella Rahbari shura, l’organo di decisione collegiale ancora in piedi, abilmente manovrato dagli ortodossi. Dalle conversazioni avute in questi giorni, il decreto sull’abito integrale appare frutto di una partita interna. Accontenta i più radicali, ma consentirà di riaprire le scuole superiori femminili, chiuse da 238 giorni, dopo la falsa riapertura del 23 marzo scorso, quando i Talebani hanno fatto retromarcia, lasciando di sasso perfino il ministero di fatto dell’Istruzione e l’intera comunità internazionale. E lasciando in lacrime milioni di ragazze, le cui famiglie avevano comprato divise, quaderni, libri, astucci, facendo sacrifici. «Non siamo contro l’educazione per le donne. Siamo favorevoli. Non abbiamo mai detto che le scuole superiori saranno chiuse per sempre. Ne abbiamo solo posticipato la riapertura, per un periodo. Molto presto, le ragazze torneranno a scuola, se Dio vuole», ribadisce Mohammad Sadiq Aqif.

ALTRE FONTI ci parlano di una riapertura imminente, nel giro di un paio di settimane. Il decreto sull’abbigliamento come contropartita per la riapertura delle scuole. Sulla pelle delle donne afghane, dinamiche interne all’Emirato, cieco di fronte alle richieste della società. Quanto agli stranieri, Sadiq Aqif non se ne preoccupa. «Non facciamo le leggi per gli stranieri, né per ottenere il loro riconoscimento, come governo. Ci aspettiamo che i governi stranieri rispetti noi, le nostre decisioni, le nostre leggi. Pensino alle loro, piuttosto: la Francia, obbligando le donne a rimuovere l’hijab in pubblico, non nega un diritto umano?».