La terra delle pagode profuma di spiritualità e contemplazione, ma non è tutto oro quel che luccica e anche il buddhismo birmano ospita le sue insidie. Il turista poco informato può rimanere abbagliato dalla sacralità degli stupa dorati, intonacati di bianco o di mattone a vista che ricoprono la valle dell’Irrawaddy; dal rispetto quotidiano evocato dalle infradito di velluto e plastica accumulate scomposte all’ingresso delle pagode; dalle lunghe file di monaci e monache questuanti con le loro ciotole di ceralacca nera. Ma il sogno di una religione che è più una filosofia ed è intrinsecamente portatrice di pace si infrange proprio nella terra simbolo del buddhismo.

L’89% della popolazione birmana è buddhista theravada (una delle due principali scuole di pensiero buddhista, considerata la più ortodossa, diffusa in Sri Lanka, Cambodia, Laos, Thailandia e, appunto, Myanmar) e viene considerato il paese buddhista più religioso in considerazione della spesa interna dedicata alla religione e della presenza di monaci: dati recenti parlano di 500.000 monaci e 75.000 monache su una popolazione di 53 milioni.

Come tutte le religioni, il buddhismo presenta delle controversie quando entra in relazione con la politica. Così la tradizione spirituale delle pratiche meditative viene brutalmente sfigurata dalla violenza, verbale e fisica. Nel 2012 nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, si sono verificati numerosi casi di violenza tra buddhisti e musulmani. Questa regione è ricca di tensioni in quanto è una delle più povere del paese. Nel mirino delle violenze buddhiste sono stati in particolare i rohingya, una minoranza musulmana i cui rappresentanti non sono riconosciuti come cittadini birmani e vengono, anzi, considerati immigrati clandestini, nonostante molti di loro risiedano in questi territori da più di un secolo.

Dall’ovest del paese, gli scontri si sono estesi in altre regioni e in tutto sono morte alcune centinaia di persone e decine di migliaia sono rimaste senza casa e lavoro, ospitate in campi profughi interni molto spesso più simili a prigioni che a campi di accoglienza. Cavalcando quest’ondata di conflitti, nel 2013 un monaco birmano salì agli onori delle cronache come “il volto del terrore buddhista” con il suo primo piano stampato sulla copertina della rivista statunitense Time. Si trattava di U Wirathu, il leader spirituale del movimento anti-islamico birmano che accettò di buon grado il nomignolo di “Bin Laden buddhista” ed è tuttora impegnato nella sua propaganda armata di sermoni, social media e Youtube. Il tema dell’opposizione buddhismo-islam in Myanmar è stato toccato nel primo intervento di Aung San Suu Kyi all’assemblea delle Nazioni Unite, questo 21 settembre.

È stata criticata per non aver nominato i rohingya, ma ha invocato tolleranza e supporto alla commissione istituita recentemente per affrontare la complessa situazione dello stato Rakhine, alla cui guida vi è Kofi Annan. Il Myanmar sta attraversando un periodo molto difficile da interpretare per la sua popolazione. La transizione da un regime dittatoriale a un sistema democratico prevede di mettere in discussione molti dei pilastri su cui la gestione del quotidiano si basa e, sui giornali e alla radio, inizia a sentirsi sempre più stesso la parola «secolarizzazione». Le violenze di questi anni sono senza ombra di dubbio legate al cambiamento degli assetti economici, politici e dunque anche culturali.

Le generazioni più giovani invocano la separazione della religione dalla politica. Tutto l’opposto veniva fatto dai generali dell’esercito al potere che «compravano» i favori del buddhismo: la costruzione di pagode e le offerte servivano a conquistare l’appoggio dei monaci, figure di influenza cruciale per il popolo birmano.

Eppure stiamo parlando della terra che ha reso celebre la meditazione vipassanā, una tecnica buddhista theravada nata in India, ma la cui grande diffusione nel mondo si deve soprattutto all’opera di due birmani, il monaco Mahasi Sayadaw (1904-1982) e il laico U Ba Khin (1899-1971). Questa forma di meditazione penetrativa ha lo scopo di sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione.

Non sorprende quindi se la meditazione è stata la salvezza di tanti prigionieri politici, molti dei quali oggi fanno finalmente parte della classe politica e intellettuale del nuovo Myanmar. Ne parla nella sua autobiografia Ma Thida, attivista birmana di professione medico, scrittrice ed editrice. Durante i cinque anni e sei mesi passati in prigione è sopravvissuta alle terribili condizioni della reclusione grazie alla meditazione, cui dedica il suo ultimo libro.

E così non dovrebbe nemmeno sorprendere che, tra i vari tipi di visto disponibili per entrare nel pase (turistico, business, ricongiungimento familiare) ci sia il visto per la meditazione. E se Buddha assume un ruolo nelle regole per entrare nel paese, lo ha anche per le espulsioni: ogni anno qualche turista con simboli buddhisti tatuati viene caricato a forza su un aereo e mandato fuori dal paese.

Il ruolo della religione nel paese buddhista più religioso del mondo è indiscutibile, su ogni piano.

Il 969

Il cosiddetto “969” è un movimento nazionalista che si oppone a una presunta espansione dell’islam in Myanmar. I tre numeri rappresentano le 9 virtù del Buddha, le 6 caratteristiche della pratica buddhista (Dharma) e le 9 caratteristiche della comunità dei monaci (Sangha). Nel 2013 l’utilizzo dell’emblema “969” venne proibito poiché strumentalizzato nei conflitti scatenati dalla comunità buddhista integralista. Il movimento si trasformò così in una vera e propria organizzazione, la Ma Ba Tha, nata con la missione di “difendere” il buddhismo theravada. Il nome dell’organizzazione viene tradotto in inglese con “Associazione per la protezione della razza e della religione”.

Nel 2013 il Ministero per gli affari religiosi preparò, in risposta alle richieste della Ma Ba Tha, quattro disegni di legge per regolamentare le conversioni religiose, i matrimoni tra persone di religione diversa, promuovere la monogamia e instaurare forme di controllo della popolazione. La camera bassa del Parlamento ha approvato due progetti di legge e l’ultimo dei quattro è entrato in vigore.

Con il cambio del governo, la Lega Nazionale per la Democrazia, l’attuale partito di maggioranza guidato da Aung San Suu Kyi, ha iniziato a discutere della possibilità di sciogliere l’organizzazione perché “non necessaria e ridondante”, dato che già esiste la Sangha, ufficialmente la comunità dei monaci.

Qualche mese fa raggiunse le news locali in Myanmar la storia di una backpacker inglese che elemosinava al popolo birmano i soldi che le servivano per comprare un biglietto aereo per l’India. Adele Hannah Groom, 31 anni, è stata fermata dalla polizia di Mandalay mentre mostrava un cartello che diceva, in inglese e in birmano, “Mi potete aiutare ad andare in India, grazie”.

Arrivata in Myanmar dopo anni di viaggio in Oceania e nel Sudest Asiatico, la giovane inglese si è dedicata alla
Interpellata da Aung Naing Soe, giornalista di Coconut media (un popolare sito di news e promozione eventi), la viaggiatrice ha dichiarato “Non posso purificare me stesso lavorando con lo scopo di guadagnare denaro. Posso andare ovunque e la gente è ispirata a comunicare con me. Vedono qualcosa in me e in quello che sto facendo (meditare, purificare se stessa, ndr).

Parlano con me e ricevo donazioni, non chiedo nemmeno queste donazioni. A volte le persone mi portano a pranzo senza nemmeno sapere chi sono. Mi portano nelle loro case senza conoscere la mia situazione. Il fatto è che quando segui le leggi della natura, ottieni ciò di cui hai bisogno”.