Se è vero, come ha scritto il più grande storico del colonialismo italiano, Angelo del Boca, che «l’Africa è stata una parte importante della vita degli italiani», per quale motivo oggi tendiamo a occultarne il ricordo, non vogliamo saperne di quello che accade al di là del Mediterraneo? A nessun giornalista, opinionista, politico, intellettuale è venuto in mente, per esempio, di chiedersi perché la gran parte delle vittime della strage del 3 ottobre 2013 (363 morti accertati e una ventina di dispersi) al largo di Lampedusa fosse eritrea, per quale motivo dal Corno d’Africa si continua a scegliere l’Italia come punto d’approdo. Quale retroterra culturale, persino linguistico, si nasconde dietro le motivazioni che spingono migliaia e migliaia di africani ad approdare nel paese che i loro genitori hanno conosciuto a scuola, la terra di Dante e Manzoni, Giulio Cesare e Totti.
È accaduto invece, per un miscuglio di ignoranza e realpolitik, menefreghismo e volontà politica che, alle vittime del più grave naufragio nella storia del Mediterraneo moderno (prima c’era stato quella della «nave fantasma» Iohan), in fuga da una dittatura, venissero concesse esequie senza le bare e neppure i superstiti, e fosse concesso di assistere all’ambasciatore del regime da cui gli stessi scappavano.
Eppure, ci ricorda Igiaba Scego nel suo Roma negata (Ediesse, pp. 157, euro 13, con le foto di Rino Bianchi), gli eritrei lo sanno bene perché vengono in Italia. È un paese che pensano di conoscere, dove i nonni di alcuni sono venuti a sfilare ai tempi del fascismo, ascari al soldo dell’Impero. Ma ben presto ne rimangono disillusi. Anche se dovessero farcela a superare i capricci del mare e la burocrazia ottusa, incontreranno un’Italia che non si sarebbero aspettati alla partenza: diffidente, maldisposta, razzista persino.
Gli ex colonizzati d’Eritrea, Etiopia e Somalia sono stati educati a pensarsi come italiani, e non c’è risveglio più brusco di chi si trova immerso in un sogno, come racconta Garane Garane, uno scrittore di origine somala, in Il latte è buono. Il protagonista Gashan sa tutto degli italiani, lo ha studiato a scuola. Ma una volta in Italia non lo riconosce nessuno, e soprattutto lui non riconosce niente.
Roma negata è un viaggio emozionale nella memoria rimossa del colonialismo nella capitale, opera di una scrittrice che ha la giusta sensibilità per cogliere quello che altri non riescono ad afferrare. Figlia di somali fuggiti da Mogadiscio ai tempi della dittatura di Siad Barrè, profonda conoscitrice dell’Italia e della terra dei suoi genitori, molto brava a cogliere i residui della propaganda fascista nella cultura popolare: qualche battuta, le canzoni, la vulgata autoassolutoria degli «italiani brava gente». Un mito che resiste ancora per un motivo in fondo banale: nelle scuole italiane non si studiano gli eccidi compiuti dai nostri connazionali nelle colonie del Corno d’Africa.
Può così accadere che ad Affile, un paesino del Lazio, un sindaco di centrodestra decida, senza destare indignazione generale, di inaugurare un monumento a Rodolfo Graziani, gerarca fascista e criminale di guerra in Africa. Nonostante i percorsi post-coloniali, come ci ricorda il retaggio della Françafriqueche ha condotto all’interventismo francese in Mali o in Centrafrica, possano essere affatto lineari, in qualsiasi altro paese d’Europa una cosa del genere non sarebbe stata possibile, tantomeno nella Germania denazificata, grazie al lavoro che le generazioni uscite dalla guerra hanno fatto su se stesse e sulla memoria.
Igiaba Scego viaggia nella città, alla ricerca delle tracce del colonialismo italiano, e nella storia, mettendo in luce l’assurdità del mito coloniale in un Paese a sua volta colonizzato e unificato da pochi anni.
Perché gli italiani si infatuarono dell’Africa? E fu vera infatuazione o avventura posticcia, provinciale? Viene in mente il tenente Decunto del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, capo della Milizia di Grassano, che vede l’Africa come «sola possibilità di salvezza e di redenzione» e fa domanda da volontario perché «qui non si può vivere, bisogna andarsene».
Nel libro di Igiaba Scego la storia riemerge di continuo, da un’aiuola abbandonata o dai comportamenti inconsci delle persone. I rimandi all’attualità sono continui. Scopriamo che la piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, frequentata quotidianamente da migliaia di africani, è intitolata ai morti di Dogali (sterminati dalle forze abissine), così come un obelisco semiabbandonato poco lontano. Ci accorgiamo che il vecchio cinema Impero, in un quartiere oggi multietnico, è occupato da senzacasa immigrati e conserva un suo omologo, in stile architettonico razionalista, ad Asmara. E sorridiamo al pensiero che la stele di Axum in piazza di Porta Capena, incrinata da un lampo e finalmente smontata e restituita agli eritrei dopo cinquant’anni di promesse e mancati accordi, è stata sostituita da un monumento alle Twin Towers di New York, senza alcuna menzione al colonialismo italiano.
A rimettere in pari la bilancia della storia, un giorno a Ciampino atterrò Hailé Selassié. Era il 1970 e il Rastafari venerato da Bob Marley e dai rasta di tutta la Giamaica, invitato da Aldo Moro, si fece portare in trionfo lungo i Fori Imperiali e in una piazza Venezia «addobbata con stupendi arazzi seicenteschi», dove un popolo entusiasta anni prima aveva applaudito alla dichiarazione di guerra del Duce. L’imperatore d’Etiopia si fermò nove giorni in Italia. A Viterbo un gruppo di ex combattenti lo salutò in amarico e lui rispose, a Orvieto gli fu restituita un’icona etiopica, alla Fiat di Torino più di un operaio lo salutò come un simbolo di liberazione. A Venezia salì su un motoscafo pagando il biglietto di tasca propria. Fu una lezione di stile impartita a chi, qualche decennio prima, non aveva esitato a lanciare addosso al suo popolo gas vietati dalla comunità internazionale.