Il Bronx Museum è una delle mete appartate rispetto al centro attrattivo di Manhattan, che arricchiscono in maniera inesauribile l’agenda culturale di New York. Fondato all’inizio degli anni settanta nella County Courthouse decò degli architetti Max Hausel e Joseph H. Freedlander, la sua sede ha affrontato più di un trasferimento, approdando nel 2006 in uno spazio disegnato dallo studio Arquitectonica. Presto, però, le forme irregolari dell’edificio, ferite dalle sottili lame luminose aperte su Grand Concourse, si sono rivelate inidonee per l’attrattiva crescente del luogo. Così, nel 2016, è stato approvato il piano di ampliamento sostenuto con forza da Holly Block, l’operosa direttrice che ha guidato l’ambizioso progetto di internazionalizzazione delle attività e degli obiettivi del museo.
La Block, tuttavia, è scomparsa in maniera inaspettata lo scorso ottobre; e sebbene il rinnovamento messo in cantiere appaia ormai avviato, le politiche perseguite sulle scelte di programma passeranno al vaglio di una difficile eredità. Del resto, già negli ultimi mesi, il board aveva incassato le dimissioni di alcuni suoi membri, riconducibili al presunto scollamento dell’istituzione dal suo mandato ufficiale, quello cioè che la lega al dialogo con le «dinamiche comunità del quartiere» e all’incontro dei residenti con la produzione artistica del Bronx. Non solo. Fra gli addebiti in carico alla guida del museo – stando al New York Times del 26 agosto 2016 – si rilevava il sostegno obliquo offerto a manovre speculative nell’area a nord di Manhattan, in corrispondenza con i blocks meridionali della prima periferia metropolitana, storicamente caratterizzati da un complesso sviluppo e da un’inesorabile decadenza.
Qualora la si ricollochi in una simile vicenda, la mostra Gordon Matta-Clark: Anarchitect (fino all’8 aprile, nel catalogo compare una prefazione della Block) non può che apparire come una risposta agli appunti mossi alla direzione. Secondo quanto marcato da quel testo introduttivo, infatti, l’esposizione consacrata a una figura cosmopolita e ‘municipale’ della fatta di Gordon Matta-Clark intende metterne in luce «le operazioni straordinarie e a ampio raggio condotte» nel vicinato, in particolare nelle particelle oggi sottoposte a una lievitante gentrificazione; vuole inoltre ricollocarle nel momento specifico in cui esse furono realizzate, quello cioè del tracollo economico degli anni sessanta e settanta, principio per un’imponente redistribuzione delle masse residenti fra centro e sobborghi.
Nelle parole della Block: «Col presentare oltre 100 creazioni dell’artista il percorso chiarisce l’impatto profondo esercitato dalle sue sfide alle dominanti ideologie del modernismo, evidenziando l’importanza rivestita nella sua produzione dal Bronx e dalla realtà newyorkese».
Degrado e vitalità
Organizzata essenzialmente col ricorso all’estate Matta-Clark (gestito dalle David Zwirner Galleries), la mostra – su due sale, cui si aggiungono appendici lungo lo scalone di accesso e il corridoio verso la 165a – si apre con la documentazione dei lavori prodotti fra il 1972 e il ’73 attorno ad alcuni ‘luoghi’ simbolici per il quartiere, insieme indici del degrado e della vitalità di una popolazione forzata a convivere con un tessuto architettonico in disfacimento. Se invero il video Substrait (Underground Dailies) e la stampa Above Below, sistemate in esergo, hanno piuttosto un valore di manifesto (non foss’altro per le date – 1976-’77 – simbolicamente prossime alla morte dell’artista), sono le serie fotografiche Graffiti e Bronx Floor a costituire il focus dell’evento, testimoniando di azioni svoltesi in maniera avventurosa col primo sbarco in quegli isolati. Dopo performances site specific sul tipo di quella in equilibrio fra le permanenze del Pier 18 a ridosso dell’Hudson, ormai avviata l’iniziativa comunitaria con base al 112 di Greene Street, Matta-Clark si sarebbe mosso in direzione dei ghetti meridionali del Bronx spinto dapprima dalla curiosità per la cultura graffitara fiorita in quell’enclave chiusa e conflittuale. Riunito un corpus imponente di foto pioniere sui ‘segni’ tracciati in interminabili sequenze lungo i vagoni della metro (photoglyhs, questo il nome consegnato a tali testimonianze), l’artista avrebbe invitato i writers della zona a usare come supporto il proprio furgone, esposto poi in Washington Square in polemica con l’annuale rassegna del Greenwich Village: qui il veicolo venne fatto a pezzi e venduto in frammenti (un lacerto di lamiera è in mostra, in un’ambigua musealizzazione di quella démarche partecipativa). Nel rispetto di uno spirito altrettanto audace, il giovane – poco meno che trentenne – si sarebbe introdotto in molte residenze abbandonate presenti in quei paraggi, effettuando tagli chirurgici o prelievi da piano a piano, spalancando varchi fra i diversi ambienti. Il compagno di spedizioni, Menfred Hecht, ha rammentato la loro spericolatezza, caparbiamente estranea a un quadro legale. Nondimeno, di fronte alle foto scattate nel corso dei sondaggi, oltre al computo del rischio personale, ci si ritrova aperti a una sorpresa in parte assimilabile a quella che Matta-Clark imponeva a pompieri, senzatetto, tossicomani e squadre di demolizione, i ‘primi fruitori’ dei suoi interventi: nonostante il quadro espositivo è infatti difficile sottrarsi al meccanismo di meraviglia attivato da prodezze siffatte, conchiuse in istantanee archeologiche in lirico bianco e nero.
In debito con la land art
L’efficacia estetica nel senso del sublime è d’altronde fra le riuscite sicure del suo linguaggio, debitore dell’epica americana della Land Art (le cui pratiche furono da questi sperimentate col concorso alla rassegna Earth Art presso la Cornell University nel 1969); e se il legame ‘territoriale’ spiega il rilievo dato alle indagini nel Bronx, l’evidenza di una simile ispirazione è consegnata – nella sala seguente – ai noti ‘diagrammi’ di Day’s End e di Conical Intersect nati in sequenza nel 1975 (ragione che motiva, almeno in parte, l’inclusione in mostra di questa seconda performance, pensata per la Biennale di Parigi). Di tali interventi colpiscono soprattutto le registrazioni su pellicola, per la studiata architettura e la densa sentimentalità. Come già affermato da Joan Simon, il concetto del filmmaking è parte integrante del catalogo di Matta-Clark (si pensi al corto Clockshower); e – secondo quanto ricostruito dalla studiosa – i documentari presentati in quest’occasione sono girati col suo contributo personale, a ricordo di imprese effimere liberate ab origine da qualsiasi idea mercantile.
Colpisce allora vedere il ragazzo in maglietta bianca surfare la lamiera del grande hangar della Baltimora Railroad Company, cowboy contemporaneo in un rodeo tecnologico; ma soprattutto incantano le attenzioni divaganti fermate in quei fotogrammi. La camera sosta sui volti interrogativi dei passanti, sul dialogo fra il pubblico della strada, l’artista e i suoi amici; cattura i giochi lungo i tagli nelle architetture (un can-can improvvisato sui tetti di Parigi), la popolazione convocata nei vuoti inusitati degli edifici (modulor fantasmatici e ironici); segue l’avvento della luce dalle fessure, dagli spiragli, dalle finestre più o meno convenzionali, ne incide i bagliori, i baluginii. In poche parole, questi film aggiungono vita all’anatomico esperimento condotto da Matta-Clark sulle spoglie dell’architettura, sulle memorie depositatesi nel tempo addosso al cadavere del suo fallimento economico: eppure, nell’affollarsi di revenants, convocano anche, ai nostri occhi, un’altrettanto nutrita schiera di arrivants, una commovente, utopica, affabile rubrica di soluzioni per il futuro, a misura d’uomo (e delle sue molteplici, variabili relazioni sociali).