La principessa Tamatori, con un guizzo astuto riesce a rubare i gioielli di famiglia dal palazzo del Drago. Intorno a lei il mare impazzisce, monta in onde incontenibili che ricadono in volute di spuma, come fossero la capigliatura di un gigante spettinata dal vento, fuggendo in un’ardita prospettiva che corre verso l’infinito. Lei morirà, così vuole la leggenda, dovrà tagliarsi un seno per intorbidire le acque con il sangue e nascondere la refurtiva, ma il suo eroismo rimarrà impresso per sempre in una xilografia policroma, dai colori setosi, che nel 1853 disegnerà un pittore dal carattere gioviale, figlio di tintori, rapito da maniacale passione per i felini come Utagawa Kuniyoshi (1797-1861). E sarà sempre l’imprevedibile acqua a segnare il confine tra il secolare fulgore del periodo Edo e il suo volgere verso il suo tramonto, in un’epoca ormai contaminata e aperta ai viaggiatori occidentali. La cesura, il punto di dissolvenza di quei due mondi si trova racchiusa in un’opera che descrive la resistenza fisica e interiore del monaco Mongaku, dove una cascata gelida diviene cornice meramente grafica. Si catapulta in primo piano e produce bagliori che virano verso l’astrattismo, con le lucenti linee verticali a occupare tutta la composizione.

«The Lineage of Eccentricity»
È così che Kuniyoshi, immerso in quell’elemento cangiante abitato da mostruose creature e attraversato da apparizioni spaventevoli, si avvia a chiudere un cerchio, trasformandosi in primo dei «post-moderni» tra i maestri giapponesi, viaggiando a vele spiegate verso le iconografie di quelli che un giorno saranno i manga. Tanto che quando Tsuji Nobuo pubblicherà nel 1988 un libro intitolato The Lineage of Eccentricity, la stessa che condurrà ai popolari fumetti in una esplosione di visioni oniriche, immagini horror e spettrali, la copertina sarà dedicata proprio a Kuniyoshi e al samurai Tametomo da lui raffigurato mentre elementi sovrannaturali lo salvano dalla bocca di coccodrilli e squali, in un mare tempestoso. Suoi saranno poi anche gli eroi (108) del romanzo di gesta cavalleresche d’Oriente, quel Suikoden che coltiva le avventure di briganti e fuorilegge, restituite nella pittura dell’artista in un crudo e bizzarro realismo, che non disdegna la minuziosa segnalazione degli horimono (tatuaggi) sui loro corpi, incisioni identitarie che ancora oggi i membri della yakuza riproducono sulla loro pelle, ripetendo i soggetti di un tempo.
Diventato celeberrimo grazie alle immagini mushae, le stampe dei guerrieri – di cui riformulò la tradizione, reinventandole con la complessità di azioni narrate in trittici dal sapore cinematografico, o con le espressioni individualizzate, spesso comiche, dei singoli eroi – Utagawa Kuniyoshi conquistò il suo posto nell’Olimpo scartando dai paesaggi di Hiroshige e Hokusai (già all’apice del loro successo), un genere che pure praticò agli inizi, in qualità di discepolo del maestro Toyokuni. Si concentrò invece su samurai, attori del kabuki, fiammeggianti geishe avvolte in kimoni che sono un quadro nel quadro, animali di ogni sorta – gatti certamente, ma anche creature fantastiche e mitologiche dell’oceano, come la balena. Soprattutto, uniformò quel variegato campionario di motivi cui attingere a uno stile che si potrebbe definire ghastly, l’amore per ciò che è orrorifico, corretto però da una spiccata vena umoristica che volge la paura in parodia.
A lui, al «visionario del mondo fluttuante» è dedicata l’esposizione ospitata presso il Museo della Permanente di Milano (visitabile fino al 28 gennaio 2018, prodotta da MondoMostre Skira e a cura di Rossella Menegazzo): centosessantacinque xilografie provenienti dalla Masao Takashima Collection che, divise in cinque sezioni tematiche, esplorano i temi di Kuniyoshi e una stralunata declinazione dell’ukiyoe, che s’incammina verso la caricatura.

Fantasmi, un antidoto alla censura
Con la sua inventiva scoppiettante, le epopee leggendarie riproposte a scatola cinese, infarcite di effetti speciali, e i suoi personaggi che affrontano la realtà a prescindere dalle regole dettate dal fluire di una cronologia quotidiana, Utagawa Kuniyoshi ha incarnato meglio di chiunque altro la figura del Briccone di Jung, quel trickster capriccioso creatore di universi paralleli, clandestino traghettatore di sogni e incubi, ma soprattutto di ombre. E mentre la nuova classe media giapponese (chonin) si diverte ad ammirare attori famosi o fascinose ragazze dei quartieri dello svago (Yoshiwara), riprodotte in centinaia di stampe di facile ricezione e dalle dimensioni «portatili», Kuniyoshi gioca a fare l’illusionista, risvegliando i suoi fantasmi con grande perizia tecnica. Lo fa con intrecci di ombre che materializzano soggetti proibiti in grumi d’aria, uno stratagemma utile di fronte alla necessità di eludere la censura. Durante il periodo buio delle riforme Tenpoo (intorno al 1841), quando furono bandite tutte le immagini del piacere e del lusso per dare una stretta alla dissipazione economica delle disinvolte comunità mercantili, Kuniyoshi affiderà a nuvole scure proiettate a parete e a divertenti animali i corpi delle star del kabuki e delle cortigiane, infischiandosene dei divieti.
Ai suoi amatissimi gatti, invece, spetterà il compito di fare il verso alla serie iconica delle 53 stazioni del Tokaido di Hiroshige, l’illustrazione della strada principale che collegava lo shogun di Edo a Kyoto divenuta simbolo di una civiltà intera. Saranno i felini – riuniti in un grande trittico – a riproporre scherzosamente e per assonanza con nomi, sillabazioni, calligrafici anagrammi e stravaganti posture, quei luoghi mitici del vecchio Giappone. E a emigrare poi in una Parigi impressionista, pronta a mutare i suoi umori culturali e ad accogliere stimoli lontani, anche attraverso la grazia felina degli affiches di un Manet.