“No alla prigione per Lula. Abbasso il colpo di Stato”. Sindacati e movimenti si mobilitano, in Brasile, dopo la sentenza che ha condannato in primo grado l’ex presidente Lula da Silva a 9 anni e sei mesi di carcere e all’inabilitazione dai pubblici uffici: per corruzione e riciclaggio nella tangentopoli brasiliana, Lava Jato. Una decisione senza precedenti. E’ la prima volta nella storia del Brasile che un ex presidente è condannato al carcere per corruzione.

Lula è accusato di aver ricevuto tangenti dall’impresa costruttrice Oas, in special modo un appartamento sul litorale brasiliano, attraverso l’impresa petrolifera di Stato, Petrobras. L’ex operaio metalmeccanico ha sempre negato ogni addebito e i suoi legali hanno fornito numerose prove a discarico. Nel teorema del giudice Moro, invece, Lula ha tirato le fila dell’intero sistema di corruzione, stornando circa 30 milioni di dollari dalla Petrobras. A tenere in piedi l’impianto accusatorio – che tuttavia non ha presentato riscontri diretti – , le dichiarazioni dei pentiti, il cui uso politico è stato più volte denunciato dai legali di Lula e dalla sinistra di opposizione.

Gli avvocati dell’ex presidente hanno definito la sentenza “una vergogna” e annunciato che proveranno l’innocenza di Lula in tutti i tribunali nazionali e anche alle Nazioni unite. Il vero obiettivo – hanno sostenuto – è quello di togliere di mezzo il candidato più titolato alle elezioni dell’ottobre 2018. Lula resta favorito nelle inchieste. Il “presidente Lula- ricordano i legali – ha sempre cooperato appieno con gli inquirenti, mostrando al giudice Moro e all’inchiesta che il luogo per dirimere le contingenze politico è il seggio e non la corte. L’inchiesta ha avuto un effetto terribile sulla sua famiglia, specialmente per la sua amata moglie, morta tragicamente all’inizio di quest’anno”. Tutto il processo – concludono – è stato un enorme spreco di denaro dei contribuenti e ha “screditato il Brasile a livello internazionale. E’ ora di ricostruire la fiducia nello Stato di diritto e il giudice Moro deve rispondere dei suoi abusi”.

La difesa ha fatto appello, questo implica che Lula può restare libero fino al secondo grado di giudizio. Quanto all’inabilitazione, secondo il complicato sistema legale brasiliano si va fuori dal gioco solo dopo una seconda sentenza di condanna. Tuttavia, se la sentenza è posteriore alla registrazione della candidatura, questa potrebbe proseguire con riserva. In caso di vittoria, la Costituzione prevede un’eventuale sospensione del processo legale.

Vi sono precedenti giuridici: il deputato federale Paulo Maluf venne condannato per irregolarità amministrativa quand’era sindaco di San Paolo e ha fatto ricorso circa il rigetto della sua candidatura a deputato. Nell’attesa della sentenza, la sua candidatura è rimasta in piedi. Il Tribunale elettorale regionale di San Paolo gli ha dato torto, ma il Tribunale elettorale superiore ha emesso una sentenza a lui favorevole e Maluf – che non è precisamente uno stinco di santo, vista la mole di accuse a suo carico per appropriazione indebita di fondi pubblici – è diventato deputato federale.

Su Lula – la cui figura resta comunque imparagonabile rispetto alla maggioranza degli eletti di governo – pendono altri quattro procedimenti. Se però la sentenza d’appello non arriva prima di ottobre 2018 potrà essere candidato alla presidenza per il Partito dei lavoratori e per l’arco di forze sindacali e di movimento che lo sostiene. Tutto indica, però, che la parte di magistratura a cui fa capo Moro voglia accelerare i tempi. Questa sentenza ha battuto ogni record di velocità, rispetto alla media di 16 mesi per casi analoghi.

“L’elezione senza Lula sarebbe una frode”, gridano i movimenti in piazza, e denunciano un nuovo “Plan Condor giudiziario contro i leader progressisti dell’America latina”. Dall’Argentina all’Ecuador, dalla Bolivia al Venezuela, presidenti progressisti e organizzazioni popolari condannano “il golpe giudiziario”. Lula “è patrimonio del popolo brasiliano, un’icona della nostra storia e verrà difeso con le unghie e coi denti da tutti quelli che sognano un paese più giusto per tutti”, scrive il Partido Comunista do Brasil (PcdoB), manifestando “indignazione”. S’indigna anche la ex presidente Dilma Rousseff, mentre il suo partito e i movimenti Senza Terra e Senza Tetto invitano a mobilitarsi. In Brasile “avanza lo stato d’eccezione”, dichiara anche il Nobel per la pace argentino Perez Esquivel esprimendo vicinanza a Lula.

La mobilitazione unisce la solidarietà all’ex sindacalista e il rigetto per le riforme liberticide su lavoro e pensioni volute da Temer. La Riforma del lavoro è passata in Senato con 50 voti a favore, 26 contrari e un’astensione. Un testo blindato che non potrà essere modificato dalla Camera e che ora è al vaglio di Temer. Per convincere gli indecisi della sua coalizione, il presidente de facto ha promesso di emendare alcuni punti particolarmente punitivi sugli oltre 100 che violano la Legge del lavoro. Ma il suo potente alleato Rodrigo Maia (presidente della Camera ed esponente del conservatore Partito democratico) ha fatto sapere in twitter che non ci sarà nessuna modifica. Maia ha assunto l’incarico dopo la destituzione di Eduardo Cunha (Pmdb), che sconta 15 anni per corruzione nel caso Petrobras.

Potrebbe essere il prossimo presidente del Brasile se Temer si dimette, se il Tribunale supremo federale o quello Elettorale lo sospendono dall’incarico o se viene approvato l’impeachment. Temer è infatti sotto inchiesta e potrebbe essere perseguito penalmente se la Camera decide di procedere in base alle accuse della Procura generale, assunte dalla Commissione parlamentare preposta. La decisione è prossima. Poi il rapporto verrà votato dai 513 parlamentari, e passerà se c’è l’approvazione dei 2/3 dei deputati. La direzione nazionale del Pmdb a cui appartiene Temer ha detto che punirà, anche con l’espulsione, i deputati del partito che alla Camera voteranno per l’ammissibilità della denuncia per corruzione contro il presidente de facto.

Se Temer cade, Madia avrà un mese per convocare elezioni indirette. In questo caso toccherebbe al Congresso eleggere il sostituto di Temer, che governerebbe fino al 1 gennaio del 2019, quando assumerebbe l’incarico il vincitore delle presidenziali di ottobre 2018. Ma la sinistra d’alternativa preme per arrivare a elezioni anticipate e dirette. Al grido di Fora Temer.