Non passa la destra in Brasile. Al secondo turno di domenica, Dilma Rousseff, candidata per il Partito dei lavoratori (Pt) ha vinto sull’avversario Aecio Neves, del Partito della socialdemocrazia brasiliana (Psdb) col 51,64% contro il 48,36%. E si conferma presidente. Il Psdb ha ottenuto il suo miglior risultato degli ultimi dodici anni, ma ha subito la sua quarta sconfitta consecutiva con il Pt, che governa dal 2003. Per Dilma, comunque una vittoria difficile, che ha fatto registrare il margine più stretto di tutta la recente storia brasiliana: nel ballottaggio del 2006, Lula ha sconfitto il candidato del Psdb, Geraldo Alckmin, con oltre 20 punti di scarto (61 a 309%). La stessa Dilma ha inflitto 12 punti di distanza a José Serra (56 a 44%) al secondo turno del 2010. Un dato che i giornali di destra ora enfatizzano, per presentare un paese diviso e frammentato e per spingere il programma del Pt verso un’ulteriore assunzione dell’agenda neoliberista.

E il segnale che arriva dai «mercati», è chiaro: le azioni della compagnia petrolifera di stato, Petrobras, dopo la vittoria di Rousseff sono scese al punto più basso degli ultimi sette mesi. Statistiche, fluttuazioni di borsa e dati economici sono peraltro stati al centro di una campagna elettorale considerata tra le più conflittuali e decisive.

Di certo, l’opposizione a Rousseff ha ampliato la sua influenza nei governi regionali: ha vinto in 9 dei 14 stati nei quali si è votato per il ballottaggio, compresa Brasilia e Rio Grande do Sul, il quinto maggior collegio elettorale del paese, con circa 8,4 milioni di votanti, nonché tradizionale bastione della sinistra e del Pt. La sua capitale, Porto Alegre, è stata un punto di riferimento simbolico per i movimenti altermondialisti. E Tarso Genro, figura storica del Pt, ex ministro e amico personale dell’ex presidente Lula da Silva, ha perso con il 38,79% contro José Ivo Sartori, del Pmdb il quale, con l’appoggio di altre forze conservatrici, ha ottenuto il 61,21%. A Brasilia, dove si sono sfidati al ballottaggio due candidati di opposizione, ha vinto Rodrigo Rollemberg, del Partito socialista brasiliano (Psb) con il 55,56% contro Jofran Frejat, del Partito della repubblica (Pr), che ha ottenuto il 44,44%. Rollemberg guida il Psb al Senato e durante la campagna ha avuto un forte appoggio da Marina Silva, inizialmente più favorita di Neves alle presidenziali. L’opposizione ha conquistato anche importanti regioni agricole come Goias e Mato Grosso do Sul, e così pure negli stati amazzonici di Amazonas, Para, Roraima e Amapa.

Il Pt e suoi alleati hanno vinto nello stato amazzonico di Acre e nelle zone più povere del paese, come a Ceara e Paraiba. La vittoria più significativa, il Pt l’ha ottenuta a Minas Gerais, il secondo stato più popoloso del Brasile, dove Aecio Neves è stato governatore tra il 2003 e il 2007, ora sconfitto da Fernando Pimentel. Minas Gerais è stato governato dalla destra fin dal ritorno alla democrazia, nel 1985, e ora per la prima volta sarà diretto dal Pt.

A livello istituzionale, Rousseff dovrà quindi mettersi d’impegno per garantire l’approfondimento delle riforme che ha promesso. Dentro e oltre il dato elettorale, c’è però il segnale che le piazze hanno mandato al Pt di Rousseff durante le proteste per la preparazione dei mondiali di calcio: la necessità di profonde riforme strutturali in un paese che ha fatto passi avanti ma è ancora preda di profonde disuguaglianze. Anche le destre chiedono un cambiamento, però nel senso di quegli aggiustamenti strutturali che piacciono al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. E, per quanto il ritmo del Pt sia notevolmente più blando e diverso da quello intrapreso nella parte più «rossa» del continente latinoamericano, Dilma ha promesso di ascoltare il messaggio della piazza: quello dei movimenti, che chiedono un referendum per un’assemblea costituente, e quello delle minoranze, che l’hanno votata per paura di un ritorno alle posizioni retrograde avanzate dalla destra di Neves.

Più difficile sarà far fronte alle richieste della «classe media» che, in Brasile come nel resto dell’America latina progressista, dopo aver usufruito dei vantaggi delle politiche economiche a favore dei meno favoriti, ora chiede più benessere e, all’occorrenza, si volge altrove. «Ai giovani che non si interessano più alla politica dico di fare attenzione, perché il pericolo maggiore viene invece da quelli che alla politica ci tengono troppo», ha detto l’ex presidente Lula durante la campagna elettorale.

Dilma ha promesso che nella sua nuova gestione di governo affronterà la riforma del sistema politico e elettorale, per risolvere le distorsioni del modello rappresentativo e favorire la partecipazione popolare. E ha accolto con favore le proposte presentate dal Movimento senza terra e dalle altre organizzazioni sociali. Ha garantito maggiori risorse nell’area educativa e sanitaria mediante una più forte distribuzione della rendita petrolifera, ha promesso una riforma dei servizi pubblici e il rafforzamento dei piani sociali rivolti ai ceti popolari. Ha anche promesso un più forte impegno nel riscatto della memoria storica attraverso un maggior impulso alla Commissione per la verità che indaga sui crimini commessi durante la dittatura. Non a caso, le potenti aggregazioni degli ex militari erano scese in campo per sostenere Neves. Dilma ha anche promesso di impegnarsi a fondo nella lotta contro la corruzione, altro tema avanzato dalle piazze e materia di scontro elettorale.

Ma il punto che più agita i sonni delle destre è quello dell’integrazione regionale. Neves avrebbe voluto voltare le spalle al Mercosur, il blocco commerciale di cui fa parte il Brasile, con Venezuela, Argentina, Uruguay e Paraguay e che esige il consenso degli altri membri per eventuali negoziati esterni. Anziché tornare a guardare agli Usa e alla Ue, Dilma ha assicurato che approfondirà le relazioni «sud-sud».