I visi pallidi vincono ancora. Il nome Redskins, nome della franchigia di football professionistico americano di Washington non è ritenuto un termine dispregiativo nei confronti dei nativi americani. Nelle ultime settimane si era disputato l’ultimo round tra la politica e la National Football League, la Nfl, primo sport nazionale. Una decina di membri del Congresso degli Stati uniti avevano chiesto ai Washington Redskins di cambiare nome. Scrivendo una lettera al proprietario della franchigia della capitale, Daniel Snyder, agli altri patron della Lega, al main sponsor del team FedEx e al commissioner, Roger Goodell. Contenuto: sarebbe razzista continuare a denominarsi Redskins. Il Merriam-Webster’s Dictionary (il dizionario americano) parla chiaro: «Redskins è una definizione razzista e offensiva quanto lo è quella che comincia per N, riferita alle persone di colore».

La risposta di Snyder non si è fatta attendere, preceduta da un’intervista al magazine Usa Today in cui lasciava pochi dubbi: «Non lo cambieremo mai, è semplice. Mai. Potete scriverlo tutto a lettere maiuscole». Niente offese all’immagine degli indiani, non si cambia. Anche perché il brand che utilizza l’immagine stereotipata dell’indiano d’America tira nel mercato statunitense e mondiale. Ci sono in ballo miliardi di pezzi in verde, va bene anche l’immagine da western movie, dei vari Geronimo e Toro Seduto. E negli Stati uniti, almeno nello sport professionistico, il marketing è testa e spalle avanti al politically correct. Il numero uno della Nfl, Goodell, esemplicava il concetto nella missiva in risposta ai membri del Congresso: solo il 10% degli americani riteneva giusto cambiare il nome; appena l’11% dei nativi americani si sentiva discriminato dall’essere accostato all’immagine tradizionale dei loro antenati; la parola redskin significa solo forza, coraggio, orgoglio e rispetto verso gli indiani americani. E agli eredi dei nativi non procura alcun fastidio, anzi sono tifosissimi dei Redskins, come dei Dallas Cowboys e dei New York Giants. Con il team della capitale che deve l’appellativo all’allenatore William Lone Star Dietz che vantava origini Sioux. Fu in suo onore che nel 1933 i Boston Braves assunsero il nome di «pellerossa», che rimase tale anche con il trasferimento della franchigia nella capitale degli Stati uniti. Insomma, tutto torna. La questione sembra attivare l’interesse solo di una fetta di politica nazionale, mentre a Washington passa quasi inosservata. Per la Nfl perché risulta complesso comprendere come una franchigia tra le più vincenti delle quattro leghe principali professionistiche americane, che ha trionfato in tre dei cinque Superbowl disputati, possa gettare discredito sui nativi americani. Nessuna Corte si è mai espressa contro. Anche se dal 1970 molte squadre (oltre 3mila tra high school, college, pro’ che presentavano nome o mascotte in riferimento agli indiani) che in passato avevano nomi legati ai pellerossa, hanno poi scelto di cambiare strada.

Ora sono poco più di un migliaio. Un granello di sabbia nel deserto, rispetto all’importanza del dollaro, la vera motivazione della mancata marcia indietro sul nome della franchigia di Washington. Il marchio Redskins vale 1,6 miliardi di dollari, stima riportata dal magazine Forbes, il terzo più ricco della Nfl, dietro ai Dallas Cowboys e i New England Patriots. Cappellini, magliette, polsini, borse. Ovunque, in giro per il mondo, c’è quel logo giallorosso con un indiano di profilo. E il marketing è la formula neppure tanto segreta che, assieme agli enormi introiti generati dai contratti televisivi con network nazionali, regionali, tv via cavo, rende la Nfl la lega più ricca del mondo, con il Superbowl che resta l’evento più visto da uno sportivo davanti al teleschermo. Quindi, gli affari vanno, si generano entrate a sei zeri grazie alla tradizione e alla storia del brand Redskins, brevettato nel 1967.

Lo dice il mercato: non si cambia strada, i membri del Congresso, come gli attivisti negli anni passati, si mettano l’anima in pace. Anche perché il nome Redskins, associato alla squadra di Washington, si intreccia fortemente alla politica nazionale: se la franchigia vince l’ultima partita in casa della stagione Nfl prima delle elezioni presidenziali, l’uomo in carica alla Casa Bianca viene riconfermato dagli americani alla guida del Paese. Una regola nota come Redskins Rule, tavola delle legge dello sport americano dal 1933 a oggi. Uniche eccezioni: la seconda elezione nella stanza ovale di George W. Bush nel 2004 (successo sul democratico John Kerry) e di Barack Obama (sul repubblicano Mitt Romney), nel novembre 2012, con i Redskins che perdevano contro i Carolina Panthers.
La querelle sulla questione «pellerossa» va ricordato che dura da molti anni, con un paio di circoletti rossi segnati sul calendario. Nel 1992 il gruppo di nativi americani decideva di attaccare la franchigia della Nfl, sostenendo che, in base al Lanham Act, una legge del 1946 che impedisce la violazione del marchio e la pubblicità ingannevole, il nome Redskins sarebbe illegale perché offensivo.

Una partita persa dopo 17 anni di battaglie legali. Perché nel 2009 la Corte Suprema, l’organismo giudiziario più importante del sistema americano, bocciava la richiesta del cambiamento. E ora il rifiuto alla politica da parte della Lega e della franchigia di prendere in esame la questione. Ma non è di sicuro l’ultima puntata del caso.
Assolutamente. Perché prima o poi arriverà qualche atleta con antenato pellerossa, che in uscita dal college sarà scelto al draft dai Washington Redskins. E dovrà scegliere se giocare con il casco che riporta quell’immagine dispregiativa che connota la sua gente, essere chiamato «pellerossa» dai compagni di squadra, oppure ribellarsi e rifiutare di giocare per la franchigia della capitale.