I Salvo sorprese, che a questo punto dovrebbero essere impensabili ma in questa assurda situazione sono invece possibili, stasera, al termine della giornata chiave delle consultazioni, Sergio Mattarella affiderà l’incarico a Giuseppe Conte. Per far capire quale sia il livello di caos basti dire che ieri, nel primo pomeriggio, il capo dello Stato era ancora incerto sulla possibilità di evitare lo scioglimento delle camere e forse, anzi, riteneva l’esito negativo il più probabile. Poi la trattativa è ripresa, anche grazie all’intervento del futuro presidente incaricato, ma sarebbe più opportuno parlare di un prolungato braccio di ferro, che verte da due giorni sul ruolo di Luigi Di Maio: vicepremier o solo ministro, probabilmente della Difesa?

ALLE ORIGINI C’È la scelta dei due partiti, che sul Colle non è stata affatto apprezzata, di dare il via libera all’incarico per Conte solo dopo aver definito almeno a grandi linee la composizione del governo. Non è solo uno strafalcione costituzionale, dal momento che la formazione del governo è responsabilità proprio del presidente incaricato. E’ anche il modo migliore per infilarsi in una serie di labirinti. Prima dell’incarico, infatti, Conte deve ridurre al minimo i propri interventi e di fatto deve restare muto in pubblico.

Lo stesso capo dello Stato rispetta la consegna che si è dato da solo di non intervenire fino a che non sarà chiaro che i partiti hanno deciso in piena autonomia di provare la carta di una nuova maggioranza invece di andare al voto. Dunque le due figure chiave che potrebbero aiutare a sciogliere i nodi, il futuro premier e, tramite moral suasion, il presidente della Repubblica hanno entrambi le mani quasi legate. Ecco perché l’incarico è considerato sul Colle il vero avvio della trattativa per formare il governo. Una mossa più d’apertura che di chiusura dei giochi.

L’INCARICO, INFATTI, non implicherà affatto automaticamente la certezza di riuscire nell’impresa. Resteranno nodi in quantità, dalla composizione nel dettaglio del governo alla definizione del programma. Non tanto nei titoli, quello in politica è il compito più facile in assoluto, quanto nelle scelte da assumere nell’immediato, sia per l’urgenza dei temi che per l’esigenza del Pd di segnare la discontinuità con l’esecutivo gialloverde. Tre punti sopra tutti gli altri: l’immigrazione, la legge di bilancio e l’idea di legge elettorale che dovrebbe accompagnare la riforma costituzionale, essendo un po’ vago l’impegno a «modificare la legge elettorale» senza ulteriori specifiche.

La giostra dei nomi che andranno a occupare le caselle ministeriali è già vertiginosa ma si tratta, come sempre, di un gioco di società. Tanto più che si tratta di «nomine» non ancora vagliate dall’incaricato che dovrebbe materialmente deciderle. In termini di equilibrio, però, i 5 Stelle dovrebbero mantenere inalterato o quasi il loro peso, perdendo solo il ministero delle Infrastrutture e, probabilmente, il vicepremier. Giusto per la cronaca, comunque, il listino di borsa ieri sera dava in ascesa per la casella chiave del Viminale l’ex capo della polizia Franco Gabrielli. Sarebbe un’innovazione assoluta affidare gli Interni a un ex capo della polizia e, al di là dei meriti dell’uomo, non una di quelle da accogliere col brindisi. Ma si tratta appunto, per ora, solo del gioco evanescente delle ipotesi.

IL GOVERNO NASCENTE avrà la vita meno facile del previsto al Senato. In una settimana il margine della maggioranza, a palazzo Madama, si è assottigliato. Ieri la presidente del gruppo Misto Loredana De Petris ha detto chiaramente al presidente che il voto dei senatori di LeU e del Misto dipenderà non dai nomi ma dall’orizzonte programmatico, del quale però non si sa al momento assolutamente niente. Dunque quel voto non si può considerare acquisito in partenza. Emma Bonino è stata anche più drastica sulla stessa linea: «Io a scatola chiusa non compro neppure i saldi». Ma nel colloquio la presidente del Misto ha anche messo al corrente il capo dello Stato dei dubbi e delle incertezze di molti senatori del gruppo, che per un motivo o per l’altro mantengono parecchie riserve.

Nelle file 5 Stelle inoltre la defezione di Gianluigi Paragone non resterà isolata: almeno altri due senatori dovrebbero seguirlo ma potrebbero lievitare sino a quattro. Tra gli 8 senatori delle Autonomie, infine, solo due, Gianclaudio Bressa e Pier Ferdinando Casini voteranno la fiducia. Gli altri 6 si asterranno. La fiducia non è a rischio ma in aula una maggioranza tanto composita da ricordare quella dell’Unione nel 2006 potrebbe poi ballare parecchio.