Se penso alla vita che mi resta da vivere vedo anzitutto una casa di campagna. Poco altro mi pare così misteriosamente «gorgiano» (retorico), o meglio, così irrinunciabile. Che sia una piccola casa di pianura, oltre le ultime file di case degli abitati, oltre le strade, magari a fianco di un sentiero polveroso, affiancato dal canale di un fiume, o circondata dai campi di cereali, alle spalle di un bosco dimenticato, sotto l’intarsio delle voci e dei voli delle rondini, o un vecchia casa di pietre in montagna, ultima testimone di una borgata spettrale, che a stento resiste ai continui tentativi d’invasione dei rovi, dei castagni, dei sambuco, le ondate di foglie secche che l’autunno riversa bisbeticamente sulle soglie delle porte. Un piccolo orto da accudire, qualche rosa, un cielo ampio da ammirare.

NEI MESI SCORSI MI SONO ALLUNGATO nuovamente nel paesaggio italiano. Questa volta, la scusa, era quella di dettagliare, di fotografare e documentare gli alberi cosiddetti millenari del nostro paese. Sono quasi vent’anni che tatuo le alpi, l’Appennino, le isole e le città, alla loro ricerca, ma si trattava di alberi monumentali, alberi secolari, senza troppa rilevanza per l’età minima. Che avessero 150, 300, forse 500, forse 2000 anni, era ovviamente importante, ogni volta per così dire decisivo, ma senza discrimine. Questa corona di viaggi, al contrario, doveva riguardare anzitutto, i millenari.

UN PRIMO PROBLEMA NASCE CON LA STIMA delle età. Vi sono diversi alberi che vengono indicati come ultramillenari: duemila, tremila, addirittura quattromila anni, ma di questi pochi sono stati analizzati secondo metri scientifici, ad esempio attraverso il conteggio degli anelli interni, laddove questo risulti possibile, poiché la maggior parte degli alberi vetusti presenta tronchi cariati o cavi, o mediante l’analisi al carbonio radioattivo, il famoso C14. Qualcuno forse si sarà domandato perché questo isotopo venga usato così tanto per calcolare le età dei monumenti o delle ossa o di qualsiasi manufatto e oggetto ritrovato negli scavi archeologici. Rispetto ad altri isotopi radioattivi del carbonio, il 14 è instabile, decade rapidamente, quindi partendo dalla sua composizione attuale, più neotroni o protoni mancano più l’elemento in analisi è databile, e proprio per questa sua rapidità di decadimento non viene usato per datare oggetti più antichi di 50 mila anni. Questa tecnica è stata ampiamente utilizzata anche per i legni degli alberi morti o particolarmente annosi.

PURTROPPO NON TUTTI GLI ALBERI considerati millenari italiani sono stati studiati secondo questi metodi. Il ritardo da una parte è dovuto ai costi degli esami, ma anche ad una certa indolenza, una mancanza di volontà. Attraversando l’Italia in cerca degli alberi più vetusti ho quindi avuto modo di rendermene conto. Ad esempio mancano le datazioni di molti ulivi del sud Italia, laddove sono ovviamente molto numerosi e diffusi, penso ad esempio al Salento, alla Calabria, alla Sicilia e alla Sardegna. Al contrario per gli ulivi vetusti del centro Italia qualcosa è stato fatto, sebbene manchi una sistematicità. Le conifere dell’arco alpino sono state studiate nel corso degli ultimi due decenni, e ora iniziamo ad avere un quadro abbastanza approfondito. La situazione delle grandi isole è ancora a livello di stima e immaginazione.

QUANDO SI TRATTA DI ESSERI VIVENTI, appunto, gli alberi, per anni ho sentito dire che la datazione non risulterebbe affidabile, tanto è vero che si era cercato di datare i grandi baobab africani con esisti che avrebbero toccato i 5 mila anni. Su alcuni volumi che illustrano i più grandi e vecchi alberi del mondo leggo addirittura stime pari a 6 mila anni. Purtroppo negli ultimi anni i maggiori baobab si sono scosciati, spezzandosi. Uno di questi, il celebre albero di Chapman, dal nome del fotografo ed esploratore britannico che lo documentò nel 1852 per la prima volta, in Botswana, ha ceduto il 7 gennaio 2016. Ora la sua età veniva favoleggiata, ma i ricercatori di un ateneo tecnico rumeno, l’Università di Cluj Napoca, sono andati in loco e hanno prelevato campioni dalle diverse radici, scoprendo, ad esempio, che i vasti baobab sono «famiglie», ovvero come accade per diversi pini dai coni setolosi in California e sulle montagne interne del Nevada, nello stesso albero convivono generazioni diverse: ad esempio dei sei tronchi che costituivano l’architettura vegetale del Chapman le parti più giovani avevano tra i 500 e i 600 anni, altre fra gli 800 e i 1000 anni, le più anziane 1400 anni.

MA NON SI TRATTA DEL BAOBAB PIU’ ANNOSO, ne è stato certificato un altro, noto come The Humani Bedford, in Zimbabwe, con età di 1655 anni. Lo studio dei nostri alberi è necessario e ci consentirà di capire al meglio non solo come vivono, ma anche che cosa noi eventualmente potremmo fare per aiutarli a non soccombere alle accelerazioni e ai mutamenti del cambiamento climatico.

VOLGENDO LO SGUARDO AI NOSTRI ALBERI attualmente sappiamo che due conifere si contendono il titolo di più annosi del paese: un larice è stato datato in Valmalenco, in provincia di Sondrio, a 2000 metri di quota, all’Alpe Ventina, è stato scoperto che è al mondo dall’anno 1006. Dai rifugi dell’Alpe si innalza un sentiero scavato tra le radici dei pini mughi e si arriva ad un anfiteatro naturale dove riposa il larice vetusto, adeguatamente segnalato. Non un albero maestoso, poiché crescere per mille anni a queste altitudini non è ovviamente facile, anzi. Medesime altitudini ma un migliaio di chilometri a sud-ovest, due pini loricati millenari radicano sui rilievi delle cime del Massiccio del Pollino, segnando il confine tra Calabria e Basilicata, e il più annoso, denominato Italus, nome che a me ricorda un treno che però non viaggia, è fermo nella stessa stazione da 1230 anni. Anche in questo caso si tratta di due alberi meno spettacolari rispetto a molti altri pini vetusti, ma la loro età d’altronde comporta una evidente fragilità.

ACCANTO A QUESTI SIGNORI «CERTIFICATI» ci sono altri campioni le cui età sono stimate o diminuite sensibilmente. Non si possono non citare i tre stanchissimi larici della Val d’Ultimo, in Trentino Alto Adige, che per diverso tempo sono stati considerati bimillenari e quindi i più annosi larici e alberi dell’arco alpino italiano, finché un’ispezione dendrocronologica ha rivelato che il maggiore, quello che sembrerebbe in relative salute, ha un’età che si attesta intorno agli 850 anni, sgretolando quella narrazione ripetuta in tanti libri, seconda la quale un quarto larice sarebbe caduto nel 1930, a causa di un temporale: qualcuno si mise a contare gli anelli raggiungendo la quota di 2200. Ma questa è una storia che evoca un racconto gemello risalente al 1870 quando un quinto larice cadde eccetera eccetera. Il presunto larice millenario della Val d’Aosta, nel commune di Morgex, è precipitato a terra oltre un anno fa, mentre pare che nel ricco bellunese, una delle nostre patrie dei grandi alberi, vi sia un larice tra i ghiaioni di Bosconero, su, a Forno di Zoldo, noto ai più come Lares del Belo, che viene stimato mille anni.

ACCANTONANDO LE CONIFERE ci attendono i grandi castagni, anzitutto i campioni alle pendici dell’Etna, fra Mascali e Sant’Alfio, a poche centinaia di metri di distanza l’uno dagli altri e la marea di olivastri e ulivi di cui scriveremo in una prossima puntata di Arbor maxima.