Negli ultimi dieci anni, la spesa militare mondiale è cresciuta del 9,3%, il livello di conflittualità rilevato dal Global Peace Index è aumentato del 6,5% e il tasso di sicurezza è sceso del 2,5%. Più armi, evidentemente, non ci rendono più sicuri.

Eppure, la guerra in Ucraina ha scatenato una corsa al riarmo in tutta Europa, Italia compresa. Così, malgrado i Paesi Ue spendano già il triplo della Russia per la difesa, ha ripreso vigore il vecchio impegno Nato di destinare al settore almeno il 2% del Pil.

Il primo Paese a rompere gli indugi mentre i carri armati russi avanzavano sulle città ucraine è stata la Germania, che ha annunciato il raddoppio del budget militare e fissato la soglia oltre il 2% del Pil. A stretto giro sono arrivate le dichiarazioni di Danimarca e Svezia.

Il 16 marzo, anche l’Italia si è impegnata ad «avviare l’incremento delle spese per la difesa verso il traguardo del 2% del Pil», con l’approvazione a larga maggioranza di un ordine del giorno bipartisan presentato alla Camera dalla Lega e firmato anche da deputati Pd, Fi, Iv, M5S e FdI. Una mossa che, secondo l’Osservatorio Milex, porterebbe il bilancio annuale della difesa da 25 miliardi di euro a 38 miliardi. Quasi il doppio del 2019, quando il nostro Paese era molto lontano dal traguardo del 2%.

Con l’arrivo di Lorenzo Guerini al ministero, la spesa militare è aumentata considerevolmente – in particolare nel capitolo dei sistemi d’arma (+85% dal 2019 a oggi) – arrivando a quota 1,4% del Pil. Sotto il peso della crisi economica e pandemica, però, quasi nessuno osava proporre apertamente l’obiettivo del 2%. Poi è arrivata la guerra in Ucraina e ogni remora è saltata. I firmatari dell’ordine del giorno, approvato con 391 voti a favore e 19 contrari, parlano di «passaggio storico» e sottolineano che l’indirizzo è vincolante per il governo. L’esecutivo, comunque, stava già andando in quella direzione. Nell’informativa al Senato del primo marzo, Mario Draghi è stato molto esplicito: «La minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo mai fatto finora». Simili le dichiarazioni stampa del ministro Guerini: «Il contesto attuale ci impone di fare di più, non solo sul piano finanziario, ma anche sull’aggiornamento dello strumento militare».

Senza troppe sorprese, al vertice di Versailles i capi di Stato si sono impegnati ad «aumentare sostanzialmente le spese per la difesa, con una quota significativa per gli investimenti» (cioè nuove armi). Secondo Affari internazionali, «l’insieme dei Paesi Ue potrebbe arrivare a investire nella difesa circa 264 miliardi di euro all’anno contro gli attuali 198». Ma il totale potrebbe essere ancora più alto: citando stime della Commissione europea, Draghi ha infatti ricordato che quello che manca alla Ue per raggiungere l’obiettivo Nato è lo 0,6% del Pil dell’Unione.

Eppure, uno studio del Parlamento europeo del 2020 bocciava drasticamente la spesa militare dei Paesi membri, in quanto inefficiente, frammentata e con duplicazioni di costi: piuttosto che aumentarla, suggeriva, era necessario migliorarla. Invece continuerà a crescere, anche se il budget militare dei Paesi Nato è già 18 volte quello della Federazione russa. Respinta, di fatto, la proposta di 50 premi Nobel e accademici di tagliare la spesa bellica mondiale e raccogliere mille miliardi di dollari per combattere il cambiamento climatico, le pandemie e la povertà, come richiesto da tempo anche da Greenpeace. Per almeno un quinto, quei soldi andranno a gonfiare i bilanci dell’industria militare, che sta già registrando forti rialzi in borsa. Le indicazioni Nato, infatti, prevedono che almeno il 20% della spesa per la difesa sia destinata all’investimento.

A dare parere favorevole per conto del governo all’ordine del giorno collegato al decreto Ucraina, è stato il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè (FI), lo stesso che in un web talk ai primi di marzo aveva proposto ai capigruppo della commissione Difesa «un patto per raggiungere o addirittura superare l’obiettivo del 2%» entro la fine della prossima legislatura (2028). Termine temporale che non compare nel testo approvato alla Camera, che fa invece riferimento a un «sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali, anche dal punto di vista» – udite, udite – «della sicurezza degli approvvigionamenti energetici».

Insomma, non si chiede solo un aumento stratosferico delle spese militari (compreso l’acquisto di «missili da crociera da imbarcare sulle piattaforme navali»), ma anche di tutelare con le armi gli approvvigionamenti energetici: cioè quelle fonti fossili che il Paese deve dismettere velocemente se non vuole bucare gli obiettivi del Green Deal europeo.

* Unità investigativa Greenpeace