Due detenuti nel braccio della morte giapponese vengono avvisati con poche ore di anticipo della loro esecuzione. È quanto accaduto nella prefettura di Osaka giovedì 4 novembre, in una delle poche democrazie al mondo dove la pena di morte è ancora legale.

I DUE PRIGIONIERI hanno quindi intentato una causa nei confronti del tribunale della città, chiedendo un risarcimento di circa 195 mila dollari e la revisione della data dell’esecuzione. Secondo quanto dichiarato dall’avvocato Yutaka Ueda si tratta di una pratica «estremamente disumana», ma che non costituisce in sé una novità nel panorama carcerario giapponese, dove spesso il preavviso non supera le due ore.

«Il governo centrale ha detto che questo (il preavviso a ridosso dell’esecuzione, ndr.) ha lo scopo di impedire ai prigionieri di soffrire prima della loro esecuzione, ma questa non è una spiegazione. Anzi, è un grosso problema. I prigionieri del braccio della morte vivono ogni mattina nella paura che quel giorno sarà l’ultimo», ha aggiunto.

LA PENA CAPITALE in Giappone è rimasta ferma alla revisione del Codice penale del 1873 e con il tempo sono gradualmente diminuiti a diciannove i reati per i quali è possibile richiederla, inclusi sette reati che non comprendono la morte di un altro essere umano. Questo non ha facilitato la strada verso l’abolizione della pena, che oggi viene eseguita per impiccagione. La prassi è anch’essa invariata dal 1873, e prevede che i detenuti vengano condotti bendati e ammanettati sopra a una botola, in un’area dedicata.

OGGI SONO 112 i cittadini giapponesi condannati a morte che aspettano il giorno dell’esecuzione. Questo problema negli anni ha sollevato le critiche delle associazioni per i diritti umani, che hanno condannato Tokyo in più occasioni.
Ne è un esempio il caso di Kenji Matsumoto: l’uomo è affetto da una grave disabilità mentale acuitasi con la detenzione, ma le autorità avrebbero accelerato il processo spingendolo a confessare un duplice omicidio. Dal 1993 a oggi sono stati respinti ben otto ricorsi. Un altro caso che ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale è stato quello dell’esecuzione di massa di 13 membri della setta Aum Shinrikyo, autori dell’attacco con gas sarin nella metropolitana di Tokyo.
NON È MIGLIORE la condizione delle carceri giapponesi. I prigionieri del braccio della morte vivono in celle di isolamento e i contatti con altre persone sono «estremamente limitati». Negli ultimi anni sono emerse inoltre nuove accuse intorno alle incarcerazioni arbitrarie degli immigrati illegali nel paese, dopo che la morte di una giovane donna dello Sri Lanka, Wishma Sandamali Ratnayake, ha messo in luce la gravità del trattamento riservato a chi non è in grado (o non ha i mezzi) di accedere a strumenti di assistenza legale.
Il più recente sondaggio d’opinione sulla pena di morte risale al 2019 e convalida i risultati degli ultimi dieci anni: una netta maggioranza dei cittadini giapponesi rimane a favore delle esecuzioni capitali.
Solo il 9% degli intervistati su un campione di 3 mila adulti aveva risposto di essere completamente contrario alla pena di morte, mentre l’80,8% ha dichiarato che rimane una soluzione necessaria in alcuni casi. Tra le motivazioni principali emergono il «rispetto dei sentimenti della famiglia della vittima» e «una vita deve essere ripagata con un’altra vita», oltre alla tesi che «il colpevole potrebbe commettere nuovamente il reato». L’esito della causa dei due prigionieri giapponesi potrebbe ancora una volta rimettere in discussione una tematica sensibile per la comunità internazionale, ma ancora poco sentita all’interno del paese.