«Che si prepari il dittatore! Ci incontrerà nelle strade» ha tuonato venerdi scorso l’autoproclamato presidente ad interim del Venezuela, Juan Guaidó, convocando una marcia per «riconquistare» l’Assemblea nazionale (parlamento). Politicamente “risorto”dopo l’incontro nella Sala ovale con Trump (il 5 febbraio) e dopo aver ricevuto le benedizioni – più o meno tiepide – del premier inglese Boris Johnson, del presidente francese Emmanuel Macron, della cancelliera Angela Merkel e della ministra degli esteri spagnola Arancha González ( il premier Sánchez si è prudentemente tenuto alla larga), Guaidó ha preteso la sottomissione sia delle componenti dell’opposizione, sia delle Forze armate. Alle quali ha chiesto di ribellarsi armi alla mano contro il (legittimo) presidente.

NON HA AVUTO né l’una né l’altra. Al contrario ha trovato una situazione in cui Maduro é all’offensiva. Nella seconda metà del 2019 il presidente è riuscito a frenare la tragica contrazione dell’economia a un pur grave- -6% del Pil ( -24% nel 2018 e all’inizio del 2019) grazie – secondo l’economista Manuel Shuterland- «a una serie di misure economiche di liberalizzazione, apertura e flessibilizzazione dei controlli». Come risposta alla guerra economica scatenata da Trump, Maduro aveva sorpreso tutti con una parziale apertura al dollaro per «stabilizzare» l’economia del paese. In un’intervista a Ignacio Ramonet (Le Monde diplomatique) il presidente aveva infatti dichiarato: «Abbiamo un’economia di resistenza. Stiamo convivendo con tre spazi monetari: un bolivar in combattimento, alcune divise (dollaro e euro) che si muovono e aiutano a far sì che una parte della popolazione respiri e che vengano liberate le forze produttive del paese e un Petro che serve per complementare, petrolizzare un’economia dollarizzata». All’inizio dell’anno – conferma la Bbc – più del 53% delle transazioni in Venezuela si sono realizzano in divisa (soprattutto dollari). In questo modo, grazie a rimesse (4 miliardi di dollari nel 2019), risparmi in dollari e a “verdoni” entrati illegalmente nel paese- «il settore commerciale sembra avere un’inesperata sensazione di bonanza». Il direttore (di destra) della Fedecamaras ipotizza che nel 2020 possa presentarsi «un risorgimento dell’economia influenzata dalle forze del mercato». In sostanza, sempre per Shuterland, «quello che vale si paga in dollari, il bolivar serve per piccole spese».

IL SIMBOLO di questa recente bonanza è il “Bodegón”: dove prima vi erano piccoli negozi in bancarotta ora vi sono grandi botteghe dove si trova di tutto, a caro prezzo, compresi generi di lusso, dal Parmigiano stagionato a champagnes francesi. Naturalmente il Bodegón è riservato a chi paga in dollari non a chi vive di stipendi in bolivar (settore pubblico). Di modo che la forbice sociale ha avuto un ulteriore aumento e di conseguenza è cresciuta anche la percentuale di cittadini che vorrebbero emigrare (38,5%). Nonostante questa conseguenza della dollarizzazione è probabile (Shuterland) sia che «continui il processo di dollarizzazione con il permesso del governo ad aprire conti in dollari», sia «un rafforzamento dell’economia estrattivista». Secondo cifre fornite da Bloomberg la produzione di petrolio è aumentata e si aggirerebbe attorno agli 800.000 barili al giorno. La stessa fonte sostiene che il governo bolivariano sarebbe in trattative con Rosneft (Russia), Repsol (Spagna) e Eni con l’idea di trasferire loro proprietà petrolifere statali e ristrutturare così parte dell’enorme debito di Petróleos de Venezuela SA (la compagnia petrolifera statale PDVSA).

In questa linea di privatizzazione strisciante vi sarebbe spazio anche per lobbies del petrolio vicine al presidente Trump, che di recente, nonostante l’inasprimento delle sanzioni, ha rinnovato le licenze che permettorno alla compagnia Chevron e a imprese di servizio associate come la tristemente famosa Halliburton, di realizzare attività economiche in Venezuela. Sempre fonti ufficiose (Shuterland) parlano di «trattative segrete» -a cui ha partecipato l’avvocato di Trump, Rudolph Giuliani- con impresari e società che controllano 60 miliardi di dollari in bond venezuelani, che potrebbero essere «associati» a contratti petroliferi.

DOLLARIZZAZIONE e «succulenti bocconi» petroliferi offerti anche ad “amici” di Trump concedono però solo un miglioramento dell’economia non strategico e, secondo economisti e politici non dell’opposizione, pagato a caro prezzo politico. Shuterland avverte che il “Bodegón” e la dollarizzazione sono un simbolo della de-industralizzazione del Venezuela. Le merci che prima erano prodotte a prezzi sostenibili dalle industrie locali ora sono importate e vendute -in valuta – a prezzi alti e con profitti stratosferici. I danni di una privatizzazione del settore energetico, come pure in quello minerario dell’Orinoco, sarebbero enormi sia dal punto di vista politico e sociale che ambientale: un disastro ecologico annunciato nella fascia dell’Orinoco.

IL GOVERNO bolivariano risponde a tali accuse annunciando una politica di controllo dell’«economia speculativa» associata alla dollarizzazione: l’imposizione di un’Iva sulle transazioni in valuta e controlli a tappeto attuati da agenti governativi su Bodegón e attività commerciali alle quali – secondo Eneyda Laya del Ministero commercio – verrebbe permesso «un profitto massimo del 30%». Per quanto riguarda le trattative del settore energetico, le reazioni sono ufficiose e negano la tendenza a una privatizzazione ma non al ruolo centrale dell’estrattivismo. Secondo tali fonti, se solo si riuscisse a portare al mercato della Borsa il 10% delle riserve provate di petrolio, il paese potrebbe ottenere 240 miliardi di dollari. Cinque volte il Pil del 2019.