Norberto Bobbio, uno dei grandi maestri del Novecento, nella prima edizione del suo Destra e sinistra ha trovato un puntuale e deciso critico in Perry Anderson, studioso tra i più importanti della rinnovata storiografia inglese. Nell’ultima edizione dello stesso libro, Bobbio è stato meno fortunato, gli è toccato il superamento di Matteo Renzi. Così si potrebbe argomentare parafrasando alcuni periodi di un notissimo discorso di Concetto Marchesi.

Numerosi commentatori, in questi giorni, hanno ironizzato su quello che, invece, un giornale importante come la Repubblica ha presentato, con il linguaggio solenne commisurato all’evento, come «un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo». Un manifesto, quindi, di politica alta. Alta proprio perché, come si pretende da un manifesto, affonda le proprie radici in un’adeguata riflessione culturale.

È vero che, a parere di Eric Hobsbawm, personalità che ha una qualche autorità per giudicare i fenomeni cultural-politici, in questi nostri tempi nessun manifesto «afferma qualcosa che valga la pena di essere ripetuta, a meno di essere un fan delle banalità scritte male. (…) Per gran parte si tratta di materiale con cui si potrebbero riempire grosse discariche». Materiale da rottamare, insomma. Ma, in questo caso non si tratta del manifesto di un tardo epigono del futurismo italiano (anche se non manca qualche eco marinettiana) bensì della riflessione culturale da cui trae il senso della sua missione politica il «capo del nuovo governo».

Se, però, si affronta il manifesto del «capo del governo» utilizzando anche il minimo degli strumenti conoscitivi necessari all’analisi di un testo che si vuole importante, ebbene via via che si procede nella lettura si mescolano sensazioni di imbarazzo e di incredulità. Imbarazzo per la mancanza di pudore, di vergogna, forse di consapevolezza, nel concepire un testo così basso da parte di un personaggio politico posto così in alto. Incredulità perché alle «banalità scritte male» si aggiungono anche imperdonabili e gravissimi errori di fatto.

Naturalmente l’alto personaggio, transitato in poco tempo da un piccolo potere di provincia ad uno dei massimi poteri dello Stato, potrebbe rispondere a osservazioni di tal tipo con le parole che Bertolt Brecht mette in bocca ad Arturo Ui: «… non ha importanza quel che pensa/ il professore o questo o quel saccente:/ importa come l’uomo della strada s’immagina il padrone. E basta». Ed infatti questo è il punto. Certo in questo caso la «padronanza» deve in parte essere divisa con l’antico padrone Berlusconi, ma la logica di Arturo Ui rimane la stessa.

Gli uomini politici che esercitano un ruolo importante, un ruolo in grado di influenzare larghe masse di cittadini, hanno sempre cercato in riflessioni, in genere storiche, le motivazioni profonde delle loro scelte, delle prospettive non contingenti da indicare. Tra la qualità della riflessione e la qualità delle scelte politiche c’è un evidente rapporto. Anzi, spesso è stata proprio la qualità della riflessione culturale a dare il senso di una politica, molto di più delle parole del momento della politica. Si pensi al Discorso su Giolitti di Togliatti.

Desta stupore una riflessione sul tema in oggetto fatta nel 1950, in un clima di durissimo scontro politico ed ideologico, in un clima di repressione dei movimenti popolari, in un clima di pericoli autoritari, in un clima che sembrava preludere ad una possibile fine dell’agibilità politica per i «socialcomunisti», una riflessione fatta da un dirigente politico di primo piano, protagonista di quello scontro. Stupore per la distanza abissale tra quella dimensione politica intellettuale e quella con cui ci stiamo confrontando.

Stupore per una riflessione che, pur partendo da una contingenza politica particolare, la polemica con la prassi degasperiana di governo, resta del tutto sul piano del sapere storico, condotta con gli strumenti della migliore metodologia storica, proprio come avrebbe potuto fare uno storico professionale. Stupore per un discorso che non è soltanto su Giovanni Giolitti, ma proprio sul riformismo inevitabile, e da parte di una personalità che, in sede di politica contingente, avrebbe considerato insultante essere considerata riformista.

Tutt’altro orizzonte quando, non casualmente, cominciano a delinearsi con relativa chiarezza i primi effetti del mutamento del ciclo di accumulazione. Il saggio di Proudhon pubblicato a firma Craxi nel 1978 può considerarsi momento di svolta. Momento in cui all’inversione del rapporto tra riformismo e neoriformismo corrisponde anche l’inversione del rapporto tra riflessione culturale e scelte politiche.

Certo considerare un articolo pubblicato su un rotocalco settimanale come elemento periodizzante, sia pure di breve arco temporale, può sembrare un’indicazione che tiene scarsamente conto delle proporzioni tra i fatti. Se ci limitiamo alla cosa in sé, cioè alla qualità dello scritto in questione, la sproporzione è davvero evidente. Solo l’iperbole italiana (e l’atmosfera di servilismo nei confronti dei potenti in atto od in fieri) può definire come saggio qualche paginetta a fortissima impronta ideologica e completamente disinformata sui risultati raggiunti dalla storiografia più aggiornata a proposito dell’oggetto su cui si intende gettare una luce, anche in questo caso, nuova. Proprio il distacco tra l’irrilevanza della cosa in sé ed i rilevantissimi effetti politico-mediatici è indicativo e fortemente anticipatore di una tendenza che ha pervaso un’intera fase politica ed è diventata uno dei parametri caratterizzanti il momento attuale fino al manifesto Renzi.

Nel caso specifico la questione riguarda la cosciente e programmata rottura tra l’agire politico e qualsiasi riflessione analitica che non sia strumentale e dunque del tutto subalterna alla sfera dell’attivismo. La programmata rottura con qualsiasi forma di pensiero «critico»; con qualsiasi forma di pensiero strutturato mediante elementi di coerenza; con qualsiasi forma di pensiero che affondi le radici nell’analisi economico-sociale e se ne serva all’interno di un progetto di mutamento della società. Per questo è del tutto vano, anzi fuori luogo, il tentativo di cercare le linee di svolgimento dell’ultimo trentennio di vicenda italiana nel «pensiero» di Craxi, o di Berlusconi o di Renzi. Non certo perché i Craxi, i Berlusconi e i Renzi siano stati o siano marginali in quella vicenda. Ne sono stati e ne sono, invece, centrali, ma non per il loro «pensiero», bensì per la capacità di giocare fino in fondo il ruolo di boss del mercato politico.

E dunque la critica puntuale, argomentata tramite strumenti concettuali rigorosi, in tale contesto non produce effetti politicamente rilevanti. Ciò non significa che non debba essere continuamente avanzata, puntigliosamente avanzata. Nel processo di ricostruzione di una politica degna del nome è comunque un momento necessario.

La cialtroneria culturale del potere politico è supportata poi, nella pubblicistica, da manipoli di corifei felici di vedere così ampiamente condivisa la loro miseria intellettuale. Così il Corriere della sera (11 dicembre 2013) può esultare perché nel pantheon di Renzi non ci sono più i «santini» (Gramsci, Marx….), cioè gli esponenti di una «cultura voluminosa», bensì la «triade Mary Poppins-Righeira-Fosbury».
Ecco, proviamoci allora a comprendere i meccanismi profondi della crisi in atto, di una crisi strutturale e sistemica, della collocazione dell’Italia in questa crisi, facendo a meno della «cultura voluminosa» e ricorrendo alla strumentazione analitica della «triade Mary Poppins-Righeira-Fosbury».
I risultati sono la non politica, la politica che rimescola le posizioni di vertice come le correnti marine di superficie ricompongono l’insieme dei rifiuti che galleggiano sull’acqua. Leonardo Sciascia fa dire ad un suo personaggio: chi non ha capito che la politica è solo personale interesse non ha capito il mondo. Ebbene la «cultura voluminosa» questo proprio non lo vuole capire.