Il dato sulla crescita sotto zero divulgato dall’Istat dimostra che i nodi prima o dopo vengono al pettine. Renzi, com’è sua natura, ci ride sopra e, smentendo i rosei orizzonti da lui disegnati tre mesi or sono, dichiara che tutto va come previsto. C’è solo da insistere. In realtà, dopo quasi un ventennio di bluff berlusconiano, in pochi mesi si sta consumando il bluff di Renzi. Il quale di tutto può essere tacciato, tranne che di mancanza di audacia e di scarsa intelligenza politica. Ne ha da vendere, condite con una dose da cavallo di spregiudicatezza.

Renzi ha sfidato nel 2012 Bersani alle primarie, ha perso, come prevedibile, ma ha negoziato una sostanziosa quota di parlamentari a lui fedeli. Apparentemente leale nei confronti di Bersani nella campagna elettorale del 2013, ha comunque marcato le distanze da lui, sabotandolo in ogni modo. Che la rivendicazione ripetuta del suo tasso di novità – sfociata nella mancata candidatura di D’Alema e altri – abbia concorso all’insuccesso del Pd è verosimile ed è altrettanto verosimile che ci sia il suo zampino (benché non solo il suo) dietro le disastrose bocciature di Marini e Prodi alla presidenza della Repubblica. A conclusione di questo primo capitolo della storia, Renzi, incoronato segretario del partito dalla plebiscitaria liturgia delle primarie aperte, ha dato il benservito al troppo opaco Enrico Letta, insediandosi alla guida di un governo fatto per intero di figure incapaci di fargli ombra.
Con quale programma? Tolto l’ammuine – i toni più accesi nei confronti dell’Europa e della signora Merkel si sono subito rivelati fumo negli occhi – non c’è altro che stolida continuità con le politiche dei suoi due ultimi predecessori. Esosità fiscale, destrutturazione del lavoro dipendente, tagli spietati ai servizi pubblici, abbandono del Mezzogiorno.

Con una piccola variante, che ricorda la famigerata abolizione dell’Ici da parte di Berlusconi nel 2008. Mentre con implacabile regolarità sempre nuove schiere di lavoratori seguitavano a perdere il posto, il Nostro ha elargito 80 euro a una discreta platea di elettori, promettendo d’estenderla nei mesi a venire. Come per la promessa di abolire l’Ici, l’obiettivo non era quello di far ripartire i consumi, bensì spuntare un buon successo alle europee in grado di legittimarlo e consolidare il suo potere. Il declino di Berlusconi e l’uscita di scena delle frattaglie centriste, massacrate dal fallimento di Monti, gli ha dato un successo inaspettato.

A dire il vero, di varianti Renzi ne ha introdotta anche una seconda. Per neutralizzare ogni opposizione entro il suo partito ha intavolato una spregiudicata trattativa con Berlusconi onde ridisegnare a misura d’entrambi il profilo delle istituzioni repubblicane. Non avendo novità da proporre sul piano delle politiche, Renzi ha investito tutte le sue energie in un disegno volto a cancellare d’un tratto il delicato sistema di contrappesi adottato dai padri costituenti.

Per carità, non parliamo di lesa democrazia. La democrazia di per sé è un contenitore assai capiente. E molto accomodante. I suoi requisiti irrinunciabili – suffragio universale, principio di maggioranza, pluralismo partitico – tollerano dosi massicce di non democrazia. Troppo spesso si dimentica che senza un decente software politico, l’hardware democratico vale poco. È così che da tempo i regimi democratici si sono ampiamente immunizzati dalle misure impopolari, e antipopolari, che adottano e hanno buttato a mare i cosiddetti diritti sociali. L’inciucio Renzi-Berlusconi non fa che concludere un percorso, avviato un quarto di secolo or sono, di omologazione dell’Italia alle altre democrazie avanzate, le quali – c’è fior di ricerche che lo attesta -, tranne quelle che hanno mantenuto il profilo “consensuale” introdotto nel dopoguerra, versano in miserevoli condizioni.

L’efficienza e celerità decisionale che Renzi, con insopportabile violenza verbale, invoca come ragione del suo programma istituzionale è d’altra parte già assicurata dall’uso e abuso del voto di fiducia e non è certo ragione sufficiente di uno zelo che andrebbe dedicato a tutt’altre cause. Prima fra tutte l’occupazione. Difficile pensare che lui non ne sia consapevole. Per quanto semplicistico sia il suo approccio ai problemi del paese, e per quanto sia anche lui impregnato di quella cultura populista che intossica le democrazie avanzate, il Nostro non fa che giocare il suo bluff.

In compenso, due acquiescenze stupiscono non poco. La prima è quella del Capo dello Stato, sempre rivendicatosi garante della lealtà costituzionale. In sintonia con Draghi, che detta la sua ricetta economica, il Presidente non lesina il suo appoggio. La seconda è quella della dirigenza e della rappresentanza parlamentare del Pd. Che una parte sia acquiescente per convinzione, si sapeva. Che un’altra sia rimasta abbacinata dal risultato delle europee, si spiega. L’opportunismo è un morbo diffusissimo in politica. Più difficile è spiegarsi l’isolamento dei Chiti, Mineo, Tocci, Casson (mi scuso per chi non nomino) che si sono fieramente opposti alla brutale castrazione del Senato. Che degli oppositori ci siano pure alla Camera è noto. Lo stesso Bersani ha manifestato il suo disagio. Ma nel Pd nessuno sembra avere il coraggio di innalzare le bandiere della Costituzione vilipesa e dire un no forte e chiaro. Spiace dirlo, ma dagli eredi legittimi dei partiti che scrissero quella Carta c’era da aspettarsi ben di più.