Il più amato dei cattolici inglesi è G.K. Chesterton, anche il più vivace e gioioso (Cecchi) – il meno amato è Hopkins, il più grande poeta vittoriano, ancora oggi rimproverato per la sua drammatica vestizione da gesuita. Un confronto tra GKC e Shakespeare su Wikipedia dà la misura della loro fama. La voce su Shakespeare di poco è più lunga, ma per ovvie ragioni. Comunque Chesterton lo aveva previsto: «Shakespeare è così grande che nasconde l’Inghilterra» aveva detto un secolo fa. I suoi scritti occasionali sul teatro shakespeariano sono stati raccolti e prefati da Dale Alquist, The Soul of Wit. G.K. Chesterton on William Shakespeare, una raccolta di diseguale interesse perché troppo allargata, ma in cui brillano tre o quattro saggi memorabili.

Adesso di Chesterton esce per la prima volta in Italia, nella accurata traduzione di Luana Salvarani, William Blake, a cura di Alessandro Zaccuri, che premette un’introduzione («G.K. Chesterton, Pictor Ignotus»), e con cinque belle illustrazioni, tra cui quella più rara e perturbante Il fantasma di una pulce (Medusa, pp. 109, euro 14,00). È un capolavoro di disinvolta erudizione, pubblicato nel 1910, quando anche tra i professori universitari l’arte della saggistica era alta. Biografia psico-fisica d’un genio per metà pazzo, per metà di straordinaria lungimiranza, un’analisi insolitamente illuminante del secolo più cangiante, il Settecento, il secolo in cui visse l’impossibile William Blake. Ma anche una lunga sofisticata conversazione d’arte, antropologia, psicologia, poesia, religione che in toni insoliti avanza ardite ipotesi, originali suggestioni, senza la volontà di imporsi sul giudizio comune – che è costantemente sfidato. Con aforismi, paradossi, improvvisi rovesciamenti o spalancamenti della prospettiva. Si resta affascinati da quel metodo che in apparenza non è un metodo. Se non avete mai amato Blake, «fiero repubblicano e accusatore di re», e le sue abnormi figure, le donne aggressive e mostruosamente femminili, e i suoi eroi convenzionali, «ma con eroismo non convenzionale», adesso ne sarete entusiasti. I suoi animali sono assoluti, «come su uno stemma araldico». Così anche per la sua poesia più perfetta «Tiger! Tiger! burning bright / In the forest of the night» (Tigre! Tigre! Che bruciando brilli nella foresta della notte), per cui si dimentica il Bambin Gesù di Southwell, «A pretty babe all burning bright / Did in the air appear» (Un bel bambino che bruciando brilla, apparve in aria). Il massone Blake sostituisce al Bambin Gesù del poeta secentesco la sua tigre dalla simmetria perfetta, paurosa.

T.S. Eliot scrisse di lui, nel 1920: «Era nudo, e vedeva l’uomo nudo, dal centro del suo proprio cristallo… Si avvicinava alle cose con una mente sgombra dalle idee correnti. Non c’era in lui niente della persona superiore. Questo lo rendeva terrificante». Chesterton aveva individuato la radice di quel realismo speciale – che era anche quello di Hopkins – nella filosofia medievale, nella quidditas delle cose che le fonda come uniche, afferrabili, eppur divine. «Nel XII secolo un realista era un uomo che iniziava dall’interno di una cosa». Del motore si sarebbe interessato alla sua «motorità» ultima, di una scimmia della sua «scimmità». «Contro la Natura, Blake – il poeta dell’Anti-Natura – poneva una determinata entità che chiamava Immaginazione… e con Immaginazione intendeva immagini eterne: le immagini eterne delle cose». Non era la mucca nera o viola degli impressionisti che lui contemplava, ma la «mucchità», l’idea bianca della mucca, più reale della mucca che pascola nel prato. «Perché il più alto dogma dello spirituale è affermare il materiale». Non avrebbe mai amato gli impressionisti, l’atmosfera rarefatta che nasconde la forma, né la nebulosità del colorista, essendo, come Flaxman, un fanatico della linea netta, dei contorni nitidi e fermi. In pittura e in poesia atteggiava le figure, muoveva il racconto secondo un disegno allegorico, uno stile fondato «sul gusto per la linea secca e per il trattamento aspro ed eroico». Anche se molti dei suoi disegni sono oltraggiosi, nessuno è semplicemente suggestivo o peggio informe. «La figura dell’uomo può evocare un mostro, ma è un mostro concreto».

Così la sua parola è gesto, schiaffo. Aveva opinioni su tutti i temi, ed erano opinioni violente, aggressive e la maniera in cui le esprimeva era più femminile che maschile. Blake era in effetti un cockney, come Keats – l’idea è di Chesterton –, e i cockney in generale avrebbero una «visione della vita troppo poeticamente lussureggiante e immaginativa… Era vanesio al massimo grado; ma era l’allegra ed esplosiva vanità di un bambino, non l’orgoglio coatto di un maniaco».

Ci sono idee anti-umane in Blake, che Chesterton chiama semplicemente manie: il caso della sua tanto pubblicizzata nudità e il caso della crocifissione, che lui negò fosse una buona idea per un figlio di Dio. Erano occasioni in cui un poeta cessa d’essere poeta – argomenta Chesterton –, a cui si offre uno spazio per infilare giudizi rapidi e affilati sul Puritanesimo, sulla necessità della bellissima liturgia cattolica, sulla differenza tra i misteri pagani e quelli cristiani, aristocratici i primi, e così democratici quelli cristiani «che nessuno li capisce mai del tutto»; sulle forme della pazzia, «Ci sono pazzi come Blake, che impazziscono in salute, e pazzi che impazziscono in malattia»; nel nostro mondo moderno è difficile capire la mappa o il disegno generale della battaglia che stiamo affrontando, «La battaglia fondamentale in cui, a dispetto di tutto questo accalorarsi e fraintendersi a capofitto, William Blake è dalla parte giusta, richiederebbe un libro sulla battaglia e non su William Blake».

E ancora sulla differenza tra il misticismo del cristianesimo e quello dell’orientalismo, l’agnosticismo confuciano, il patriottismo giapponese, il mistero della dissoluzione come è enfatizzato in Oriente e «il mistero della concentrazione e dell’identità manifesto nelle chiese storiche della cristianità…. Il cristianesimo è ‘personale’ nel senso in cui uno scherzo volgare è ‘personale’: corporeo, vivido, forse spiacevole». L’onestà e l’acutezza, il wit, di Chesterton possono essere terrificanti. Ma vediamolo al lavoro su un testo da lui scelto, il disegno di una figura gigantesca e nuda in un tetro corridoio, appena illuminato da una luce rossastra. È Il fantasma di una pulce – la pulce era già stata innalzata a dignità sacramentale da John Donne in una poesia eponima, poiché in essa è mescolato il sangue dei due amanti. Il suo metodo è semplice ma calzante con l’oggetto-pulce. Prima il titolo e il soggetto, poi l’aspetto e la forma, poi i principi basilari e le implicazioni. «La visione di una pulce è una visione di sangue; ed è ciò che ne ha fatto Blake… Ogni grande mistico se ne va in giro con una lente d’ingrandimento».