In Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche ammoniva che «chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro». Le tragedie di Seneca sembrano formulare, in modo implacabile, domande che provengono proprio dall’abisso di aberrazioni umane a lungo contemplate. A tutti coloro che si chiedono perché valga la pena leggere, o addirittura mettere in scena, come anche in occasioni recenti si è fatto in modo convincente, testi scritti da un filosofo a lungo sovraesposto in politica durante il principato di Nerone, va ricordato che per la tragedia che vide (o rivide) la luce nell’Europa moderna, il teatro di Seneca fu molto di più che un autorevole riferimento paradigmatico: rappresentò un patrimonio canonico cui attingere e dal quale, appunto, ripartire. Tali fabulae, esempio isolato e superstite di un genere, la tragedia latina, quasi completamente naufragato nella tradizione diretta, trovano un legittimo e riconoscibile spazio nel panorama degli studi letterari solo a partire dagli anni ottanta, in gran parte grazie alla disseminazione compiuta dal convegno «Seneca e il teatro» (Siracusa 1981), voluto dalla lungimiranza di Giusto Monaco, allora direttore dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico.
È in questo clima che Giancarlo Mazzoli rivolge le sue cure al teatro senecano. Mazzoli è stato a lungo professore di Letteratura latina a Pavia, ed è tuttora un punto di riferimento, umano e scientifico, per gli addetti ai lavori. Seneca è da sempre al centro degli interessi di questo studioso: alcuni suoi saggi, come Seneca e la poesia (Ceschina 1970), sono diventati autentiche pietre miliari. Chi ha avuto il privilegio di ascoltare le sue lezioni sa bene che il prof. Mazzoli ha il dono di saper mettere a disposizione la disarmante ricchezza delle sue conoscenze con un tratto elegante, lucido, sempre chiarissimo, generoso nel valorizzare i contributi altrui piuttosto che i propri. Sono doti che appartengono anche alla prosa dei suoi numerosi scritti, una bibliografia che spazia in lungo e in largo tra generi, opere e autori latini.
I risultati di trent’anni di studi sul corpus tragico di Seneca sono riuniti adesso nel volume Il chaos e le sue architetture Trenta studi su Seneca tragico (Palumbo, pp. 520, € 58,00), pubblicato nella collana «Letteratura classica» diretta da Giusto Picone, altro autorevole studioso del teatro del Cordovese. Il libro ha una struttura pensata per guidare il lettore alla comprensione del tragico senecano, «una poesia che non persegue mete di filosofica edificazione ma affonda per così dire il bisturi nella condizione umana per rappresentarne, demistificarne e cavarne, con vigorosa mozione degli affetti, il marcio». Cinque sezioni tematiche alimentano questo percorso di comprensione. Attraverso i saggi della prima parte Mazzoli tratteggia un ritratto unitario della scrittura senecana, quella in prosa e quella in poesia, contro il mito, duro a morire, dei «due Seneca», il morale e il tragico. Affrontando con illuminanti argomentazioni i temi sottesi alla poetica e all’ideologia del discorso tragico (per esempio mito e storia, error e culpa, natura e uomo, guerra e pace), l’autore propone la soluzione più intelligente e adeguata per capire Seneca: occorre, semplicemente, ammettere la distanza tra il prosatore e il tragediografo, riconoscere come «la tragedia senecana sia un’operazione radicalmente inversa (ma non antagonistica!) alla costruzione filosofica: un’operazione che è legittimo paragonare a quel lavoro di scavo e di rimozione necessario da fare in profondità prima di gettare le fondamenta di un ‘sublime’ edificio».
Entro questa cornice, gli studi contenuti nelle parti II e III («Strutture e azione»; «Drammi e personaggi») rivelano e interpretano le nuove funzioni cui Seneca piega la struttura drammaturgica delle sue fabulae. Dopo una Parte IV che isola due momenti della fortuna antica di Seneca tragico (in Claudiano e in Boezio), i saggi di «Epilogo (e riepilogo)» che compongono la parte V portano a riconoscere nel chaos il motore essenziale delle fabulae. Mazzoli fa comprendere, attraverso un’analisi puntuale dei singoli drammi, come la crescente consapevolezza senecana del potere eversivo del chaos trovi rispondenza in strutture drammaturgiche sempre più coese, toccando una piena maturità sul piano degli esiti nell’Hercules furens, nella Medea, nel Thyestes, nell’Agamemnon, un autentico «teorema tragico». Le architetture del chaos rappresentano così una (contro)realtà nella quale il bene viene relegato nel cuore dei pochi che agiscono con volontà guidata dalla ragione, ma senza efficaci effetti, mentre il male continua a occupare spazi e parole dei vivi, secondo il principio per cui homini perdere hominem libet (ad Lucilium 103,2).
Il libro di Giancarlo Mazzoli restituisce un’idea coerente, complessa ma non contraddittoria del Tragico secondo Seneca, e da questo discendono due importanti conseguenze, sul piano culturale. La prima, forse la meno importante, è che, ci piaccia o no, non possiamo non dirci senecani, invischiati come siamo nell’urgenza di osservare i sentieri aperti dal male nelle nostre vite, e di definire tale pervasiva presenza. La seconda conseguenza è che, nell’accurata messa a fuoco dell’idea del tragico perseguita da Seneca, comprendiamo quanto l’operazione di attingere ai classici possa ancora essere, come era già per i Romani, un modo credibile e fecondo di interpretare il presente. Rispetto ai suoi antecedenti greci e ai loro miti, infatti, il filosofo di Cordoba opera una mediazione: porta in scena mostri in grado di dare espressione a temi e problemi che, nel suo tempo, gli apparivano rilevanti sul piano ideologico, di offrire la voce, e con essa un senso, alla ferocia con cui il male investe gli uomini, anche quelli che conoscono l’idea del bene e della giustizia. Un uso dei classici, insomma, che appare incredibilmente contemporaneo.