È ora di archiviare il bipolarismo. Fare dell’Italia una democrazia bipolare è stata un’idea sciagurata. Una volta ridotta la frammentazione partitica con le sue torbide pratiche «consociative», instaurando l’alternanza e una leadership stabile e autorevole, un governo che governa e un’opposizione che controlla, si sarebbe moralizzata la vita pubblica e ripreso il cammino della crescita. È stato un fallimento e anche una truffa.

Il mito del bipartitismo britannico c’è sempre stato sul continente. Ma pochi avevano fatto caso che i bipolarismi presunti felici degli anni Cinquanta e Sessanta dipendevano dalle condizioni economiche. In tempi di vacche grasse, governasse la destra o la sinistra, c’era di che ridurre le disuguaglianze conducendo politiche meno grame verso i ceti popolari. Così, se in Italia si faceva consociativismo politico (meno torbido di quanto si sia raccontato), che aveva prodotto a lungo andare un discreto consociativismo sociale, i bipolarismi di successo si concentravano su quest’ultimo, instaurando fra l’altro un forte motivo di continuità tra i partiti che si alternavano al governo.

Le cose sono cambiate allorché la società ha iniziato a avanzare troppe pretese e quando le condizioni economiche sono peggiorate. I paciosi bipolarismi della fiaba sono divenuti spietati verso i ceti popolari. I partiti di destra hanno preso a governare contro gli elettorati della sinistra e hanno pure promosso una spregiudicata polarizzazione del clima politico. Intenzionati a favorire solo i ceti abbienti, hanno giocato la carta dell’ideologia. Stuart Hall, che aveva compreso la manovra, già nel 1979 parlava di «populismo autoritario» riguardo al thatcherismo. I partiti di destra consolidavano il proprio elettorato piccolo borghese con l’immagine della leadership, le misure law & order, gli appelli identitari, l’esasperazione di temi sensibili come quello dell’aborto. Sostituendo al bipolarismo pacioso un bipolarismo avvelenato. I cui danni si sono aggravati allorché i partiti di sinistra si sono convinti di sopravvivere al postfordismo inseguendo l’elettorato intermedio a spese di quello popolare. E quando la bandiera del populismo autoritario è stata raccolta da una nuova destra fascisteggiante.

LA FINE È NOTA. Se e quando c’è stata crescita, è stata per pochi. Le disuguaglianze si sono allargate, mentre il bipolarismo avvelenato, soccorso dall’estremismo di destra, ha lacerato la vita collettiva. Si è un po’ salvata la Germania, dove, quale che fosse il governo in carica, i rapporti tra i partiti maggiori sono rimasti decenti.

Fino a un certo punto, perché quando la crisi si è aggravata, anche lì è apparso il populismo. Per queste differenze sia consentito rinviare al libro curato da Carlo Trigilia appena uscito dal Mulino (Capitalismi e democrazie. Si possono conciliare crescita e disuguaglianze?).

Riconvertita al bipolarismo, l’Italia non è sfuggita a questa sorte. Avviato da Berlusconi dopo la riforma elettorale del 1993, confermato dal partito «a vocazione maggioritaria», il bipolarismo non ha cessato d’incattivirsi. Con un progressivo accumulo di torsioni al modello democratico disegnato in costituzione, culminato in quello che Francesco Pallante ha chiamato il regionalismo «degenerato», figlio di una manovra furbesca intesa a disinnescare il leghismo. La gestione dell’emergenza Covid illustra il disastro.

Ma il disastro più grave è l’avvelenamento della pubblica opinione. Non facciamo di tutt’erba un fascio. Succede perfino nell’America di Trump. I cui elettori non sono tutti nerboruti suprematisti in tenuta militare, come quelli che compaiono in fotografia. In quell’elettorato c’è di tutto: ceti abbienti che non amano pagare le tasse, lavoratori avviliti dalle grandi ristrutturazioni produttive, molte Nonne Papere del Midwest educate a odiare i comunisti. Lo stesso capita in Italia.

L’elettore medio di centrodestra ha sempre avuto in mente un’idea: non votare mai per la sinistra, che pure ormai di sinistra ha ben poco. Non è detto nemmeno che questo elettore dia retta ai discorsi paurosi alla Salvini. Il bipolarismo li costringe a schierarsi e loro si schierano, minimizzando l’involuzione brutalista promossa dal suddetto. Magari intrattengono rapporti amichevoli con la badante marocchina della zia. Si è aggiunta infine una frangia d’elettorato popolare, colpita dall’aggravamento delle disuguaglianze e non più protetta dalla sinistra postfordista. Chissà perché? Molti si astengono. Altri sono sedotti dallo sgangherato moralismo a 5 Stelle. Ma qualcuno ha saltato il fosso e vota Lega. Il precedente americano suggerisce che si tratta di un salto reversibile.

A OGNI BUON CONTO, in questo modo il bipolarismo avvelenato sta dilaniando il paese. E sa ricordare: il fascismo ebbe successo quando tirò dalla sua parte l’Italia conservatrice e moderata, che pure non condivideva le sue violenze. L’avventura di Trump dimostra anche come l’Italia non sia un caso unico. Lo conferma il Regno Unito di Johnson. Il gran problema è allora come uscirne. Il bipolarismo è stato una mistificazione dannosa e la polarizzazione sociale è un disastro che l’Italia non può più concedersi. In America Biden ha promesso di rimediare alla seconda. Vedremo. Da noi farlo serve anzitutto rimuovere la polarizzazione politica, che ha fra l’altro trovato nei social un rischioso fertilizzante.

Ridurre le disuguaglianze ridurrebbe le divisioni e la polarizzazione. Ma per riuscirvi va cambiato anzitutto il modo di far politica. Archiviando gli schieramenti contrapposti, alimentati dalle brutalità della destra, conviene tornare un po’ all’antico, anzitutto con un proporzionalismo ben temperato, che favorisca la rinascita di uno schieramento di centro e divida la destra. E da riprogettare altresì il regionalismo: in chiave cooperativa e non competitiva. Pensiamoci. Se in questo momento si potessero ripartire tra un più ampio arco di forze politiche il governo della pandemia e i suoi rischi elettorali sarebbe forse più facile tenerla a bada. Il corpo a corpo con la destra populista non paga. È più saggio diluirla.