Sembra ormai inevitabile, a Hollywood, registrare una tendenza alla favola revisionista che ha l’ardire, e quasi mai l’ardore, di trasfigurare fiabe e miti consolidati dell’immaginario dell’infanzia in pasticci post-apocalittici o young adult – l’unica «anomalia», negli ultimi anni, sembra essere solo lo straordinario Il grande e potente Oz di Sam Raimi. Pan, dell’inglese Joe Wright, non fa eccezione, commutando la storica rivalità fra Peter e Capitan Uncino in amicizia dai risvolti quasi paterni, e l’Isola che non c’è in un purgatorio roccioso dove i bambini sono costretti a lavorare tutto il giorno alla ricerca della polvere di fata.

Peter, all’inizio del film, è un bambino dodicenne che vive in un tetro orfanotrofio inglese, abbandonato alla nascita dalla madre Mary, col sogno un giorno di ritrovarla. La sua realtà quotidiana è popolata da suore grottescamente arcigne che rubano provviste in tempo di bombardamenti. Una notte, Peter e i compagni sudici e speranzosi, come in un film dickensiano di David Lean, vengono rapiti, con la complicità delle monache, da un galeone di pirati e portati nell’Isola che non c’è governata dal malvagio Barbanera.

Lì il ragazzo scopre presto di saper volare, attirando le attenzioni di un giovane minatore, James Uncino, desideroso di fuggire dalla schiavitù mineraria che lo affligge fin dall’infanzia.
I due nuovi amici così si ritrovano nella foresta dell’Isola e stringono un’alleanza con l’eterea Giglio Tigrato, principessa di una colorata tribù indigena, per sconfiggere Barbanera, ossessionato dall’eterna giovinezza, che solo la polvere di fata riesce a regalargli, e dalla profezia che vuole un ragazzo volante come salvatore dell’Isola.

Joe Wright, figlio di marionettisti e dunque geneticamente avvezzo all’artificio, ha fatto dell’adattamento quasi una missione di cinema, traducendo importanti opere letterarie, da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen a Espiazione di Ian McEwan, a volte con un lodevole gusto per la macchinazione e il barocco – il suo Anna Karenina, sceneggiato da Tom Stoppard, era un’affascinante ed estrema spoliazione narrativa dove il complesso romanzo di Lev Tolstoj era inscheletrito a favore di una ronde visionaria, stregata dai congegni della messa in scena.

E innestando elementi fiabeschi anche nell’asprezza di film action e contemporanei come Hanna. Qui il regista inglese produce l’inverso, introducendo nella fiaba sfumature odierne di dubbio gusto, Barbanera viene accolto sulle note di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, e antepone nuovamente la meraviglia ai codici della narrazione; l’uso del 3D è straordinario ed efficace, ma dimentica l’incalzante e necessaria fluidità della letteratura per bambini, e non riesce a differenza dei film precedenti, a coreografare la macchina da presa al suo gusto per l’ostentazione.

Ma è nella mancanza di un magica sintonia fra la prosa di J. M. Barrie e l’eredità dell’immaginario Disney che la messa in scena di Joe Wright affonda come i suoi galeoni pirata, in quell’accordo perfettamente armonizzato invece in Hook di Steven Spielberg, dove la vertigine dell’infanzia non si accontentava di volteggiare su una stereoscopica nuvola paffuta ma era capace, e desiderosa, di guardare anche e soprattutto nell’abisso.