È finita nel più classico dei modi, con musica, fuochi d’artificio e una cerimonia di chiusura con 5mila invitati, le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che parlano di «sfida vinta», e la consegna delle bandiere ad Astana 2017 e a Dubai 2020. Il sapore – scontato – è quello della vittoria, perché non c’è dubbio che l’Expo di Milano sia stata un successo.

Quantomeno nei numeri, con 157 Paesi rappresentati, 21,5 milioni di visitatori, nonché nell’organizzazione complessiva. Quella che con locuzione retorica viene chiamata «modello Milano», e che adesso il governo intende trasferire nella Capitale per mettere in salvo il Giubileo, a capo della quale sarà l’ormai ex prefetto Paolo Francesco Tronca.

Un successo che nasce anche dalla contrapposizione con le premesse, tra indagini, scandali e polemiche, che Expo l’hanno accompagnata fin dall’assegnazione a Milano dopo la guerra con Smirne nel 2008.

«Ma dare un giudizio tranchant sarebbe semplicistico. Expo è un flusso, o in altri termini un evento capace di avere un forte impatto nel luogo in cui avviene, producendo cambiamenti antropologici, culturali, sociali». Il sociologo Aldo Bonomi si trova proprio lì, nella cittadella di Expo aperta per l’ultimo giorno: di questi ultimi sei mesi e di quelli che verranno fa un’analisi lucida e in chiaroscuro.

Bonomi, qual è la sua lettura ad esposizione finita?

Esistono due chiavi. La prima è privilegiare i segnali forti, vedere Expo nell’ottica della dittatura del Pil, quindi quantificarla in termini di milioni di visitatori, di visite di Capi di Stato, di segni più rispetto alle carte di credito e alle prenotazioni alberghiere. Poi esistono i segnali deboli, i fatti che non raggiungono le prime pagine, come i 10mila seminari e dibattiti sui temi legati al cibo – scarsità, trasformazione, spreco, diseguaglianze – e ai modelli di sviluppo.

Uno per tutti: la sfilata sul Decumano di tutte le Caritas del mondo per sensibilizzare sul problema della fame. Questioni che si inseriscono nel dibattito epocale sui nuovi modelli di sviluppo del nostro secolo, come confermano anche i temi delle prossime esposizioni, l’energia in Kazakistan e le connessioni della mente a Dubai. Sarà poi da vedere se la celebrazione lascerà una deriva di discussione e approfondimenti.

Una delle perplessità era rappresentata dalla forma stessa di Expo, dal senso di un’esposizione universale in un’epoca globale: che cosa ha spinto milioni di visitatori a passare i tornelli?

Questa Expo segna una discontinuità. Innanzitutto ha confermato la forza della prossimità fisica rispetto agli eventi, il che conferma che più globale corrisponde a più locale, all’interno della modernità di strumenti e conoscenze: una testimonianza personale certificata dal selfie. Ma poi si differenzia dalle Expo precedenti perché, se per l’intero Novecento questo tipo di esposizione è stata la celebrazione del capitalismo e della tecnica, ora non è più una pura celebrazione della potenza, piuttosto deve fare i conti con i suoi limiti.

Quelle del secolo scorso erano Expo in cui un primo popolo si rappresentava rispetto ad un secondo, ovvero facevano da modello per le nazioni cosiddette arretrate. Oppure venivano organizzate come la Fiera campionaria, di Milano peraltro, per le masse interne. Che c’è di più fordista della Torre Eiffel, che infatti celebra il secolo dell’acciaio? Adesso abbiamo l’Expo della moltitudine, in cui irrompono tutte le problematiche dell’età moderna, a partire dalla migrazione dei popoli.

Ha senso parlare di un «modello Milano» da replicare a Roma per il Giubileo?

La connessione tra Expo e Giubileo è solo il fatto di essere entrambi eventi epocali. Quello che si vuole replicare è il flusso, l’efficienza nel governarlo, l’organizzazione complessiva. Contenuti e soggetti committenti sono del tutto diversi. A Milano sono le reti ad aver funzionato: un’eredità che Expo lascia è che le Ferrovie hanno trasportato 12 milioni di persone a Rho, di cui le metropolitane sono state i veri vettori, tanto che i parcheggi sono stati un flop assoluto. Poi ci sono altre reti, innanzitutto quelle della comunicazione. Basti pensare che l’Albero della vita ha superato in citazioni su Facebook e sul web l’albero di Natale. Allora, noi siamo ancora a ragionare con un eccesso di retorica di Milano capitale morale, un dibattito tutto novecentesco che non coglie la discontinuità dell’oggi: in realtà Milano è il punto nodale tra il capitalismo delle reti e il mondo, e il deficit romano è semmai un problema di reti. Milano ha una composizione sociale in trasformazione, ed è vero che di questo processo fanno parte molti punti controversi, a partire dal lavoro precario, tutti da discutere. Ma sarebbe meglio sottrarsi al gioco delle classifiche. Roma è in transizione tanto quanto Milano, e il Giubileo come Expo è un evento inserito in questo processo.

Se Expo ha evidenziato i processi sociali di cambiamento in atto, e nel complesso ha funzionato, quali sono adesso i possibili rischi?

Guai a noi se guardassimo solo la massima espressione di innovazione e cambiamento, solo i segnali forti. In questo deve intervenire la politica: perché i flussi producono anche processi di emarginazione, ed occorre la capacità di governarli, di costruire una visione della città che tenga insieme innovazione ed inclusione. Io dò un giudizio positivo della giunta Pisapia, che in questi anni ha saputo occuparsi dell’emigrazione, delle nuove forme di lavoro – start up, co working, sharing economy – della nuova composizione sociale di Milano, ed anche del rapporto con il capitalismo delle reti. Ha costruito un metodo di confronto che spero rimanga».