Altro che Rolex: i «piccoli» cadeaux offerti dagli ospiti sauditi ai funzionari italiani dell’ultimo viaggio d’affari del premier Matteo Renzi a Riyadh. Tutto torna e presto ci sarà un grande banchetto finanziario nella capitale del Regno wahabita. Un banchetto a base di petrodollari.

Il vice principe ereditario che detiene lo scettro del comando, Mohammad bin Salman bin Abdul Aziz, di fronte al grosso buco di bilancio da 90 miliardi di dollari conseguente al ribasso del prezzo del greggio – passato in meno di un anno dai 100 agli attuali 34 dollari a barile, il più basso da 12 anni – e alle misure di austerity necessarie a contenerlo che rischiavano di indebolire il Regno sul fronte interno, ha deciso due giorni fa di mettere in ballo, cioè in vendita, una parte della Aramco, la società controllata dallo Stato che detiene il secondo più grande giacimento di petrolio al mondo ed è già il più grande esportatore mondiale di greggio.

Roba da far impallidire i due primi due colossi già quotati – l’americana Exxon Mobil e la russa Rosneft – visto che ciò che conta è la valutazione delle riserve e la Aramco da sola ne stima per 267 miliardi di barili, pari a un quarto delle riserve mondiali – durevoli per almeno un altro secolo – con una capacità estrattiva di 12,5 milioni di barili al giorno, persino incrementabili.

I termini dello sbarco sul mercato borsistico internazionale di questo mastodonte petrolifero sono ancora allo studio – come si sono affrettati a precisare ieri i vertici del gruppo – ma anche solo l’annuncio di questa gigantesca operazione di privatizzazione è per l’agenzia di stampa Bloomberg da segnare sul calendario come «il Big bang dell’Arabia saudita».

Questione di mesi, da quanto si capisce nell’intervista rilasciata dal principe saudita all’Economist. Secondo gli analisti economici, la Aramco potrebbe rivaleggiare con la Apple come la più grande società quotata al mondo. Un vero terremoto per i listini.

Va da sé che questo scardinerà prima di tutto il sistema attuale dei prezzi dei combustibili fossili e in particolare è possibile che sia il colpo di grazia per l’Opec.

Secondo Bob McNally, consulente della Casa Bianca per il mercato petrolifero, «l’Arabia saudita si prepara a cavalcare il prezzo del petrolio sulle montagne russe, non a controllarlo».

McNally non ha difficoltà a definire il passaggio «epocale», forse gravido di maggiori conseguenze economiche di quando lo stesso regno saudita nazionalizzò le sue risorse nel 1970 provocando un’onda lunga nelle economie maggiormente energivore a cominciare dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher. Ora gli effetti più rilevanti sono attesi sull’economia della Cina, che è ancora il più grande importatore di petrolio e anche il primo acquirente di quello saudita ma anche una locomotiva già rallentata della crescita mondiale.

Secondo indiscrezioni dell’Economist l’offerta iniziale potrebbe riguardare il 5% della società ma l’operazione di vendita potrebbe poi proseguire con cessioni più consistenti, incluso delle società controllate dal gruppo, sempre mantenendo però la proprietà statale del pacchetto di controllo.

I primi attori a essere coinvolti saranno, naturalmente, i soci e gli investitori strategici per l’Arabia Saudita: primi fra tutti gli Stati uniti, primo fornitore di Riyhad, dai macchinari all’impiantistica.

L’Italia è una preda

Storicamente Roma è il principale importatore europeo di petrolio dall’Iran e anche negli anni dell’embargo ha mantenuto questo primato, pur riducendo i volumi di interscambio, dovendo escludere i prodotti petroliferi.

Nel 2014 in particolare è ripreso con il vento in poppa l’interscambio con l’Italia: +221% le importazioni e +9,5 % (1 miliardo e 100 milioni di euro in valore) le esportazioni dall’Italia, soprattutto di macchinari e tecnologia di cui l’Iran ha fame per ammodernare i suoi pozzi e le sue infrastrutture e aumentare la produzione di greggio fino a 5,7 miliardi di barili al giorno nei prossimi cinque anni, oltre che per coltivare la sua diversificazione produttiva, visto che la sua economia, come del resto quella saudita, ha l’esigenza di diminuire la dipendenza, ancora all’80% per entrambi i paesi, dall’industria estrattiva.

Con la fine delle sanzioni anche all’export petrolifero il prossimo 16 gennaio in virtù dell’accordo sulla non prolificazione nucleare del 14 luglio scorso, è chiaro che Teheran guarda in particolare, oltre alla Cina con la quale ha sempre continuato a commerciare, agli Usa e all’Europa.

E l’Italia, ha sottolineato il presidente iraniano Hassan Rohani nella sua recente visita a Roma, è considerata «la porta d’Europa».

Ora l’Arabia Saudita, dove l’Eni è solidamente insediata e la sua controllata Saipem si è appena aggiudicata un’ennesima commessa con Aramco da 600 milioni, rischia di mettersi di traverso.