Nanà Vasconcelos, il musicista e percussionista scomparso ieri nella sua Recife all’età di 71 anni «ci ha insegnato ad ascoltare il Brasile». La frase è del ministro della Cultura brasiliana Juca Ferreira e ha quindi una precisa risonanza identitaria (infatti prosegue così: «Ci ha condotto per mano in un paese profondo che si era rifugiato nelle nostre memorie infantili. Tutta la sua opera è impregnata di riferimenti che sono parte essenziale del nostro modo di essere e di sentire»), ma estrapolata dal contesto ha una sua evidente portata universale, proporzionale all’energia con cui Nanà si è imposto come diffusore planetario di quell’insegnamento.

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Vasconcelos, tornato a vivere nel nordeste brasiliano solo alla fine degli anni ’90, si può definire fuor di retorica un patrimonio anche mondiale, grazie a una presenza costante e a tratti debordante sulla scena del jazz internazionale e nell’ambito di più recente costituzione della cosiddetta world music. Un musicista che sì, ha fatto scoprire ai brasiliani prodigi nascosti della propria storia musicale, ma ha soprattutto fatto girare un po’ di quell’enorme portato di bellezza e sensibilità legato alla cultura musicale afrobrasiliana in ognuna delle situazioni artistiche con cui si è trovato a interagire.

Che sono tante, ma tante da non crederci. Con tocchi di storia sia sul piano interno – era o no nel Quarteto Livre che accompagnava Geraldo Vandré in quella Pra não Dizer que Não Falei de Flores che segnò un momento topico nelle relazioni tra canzone, cultura popolare e dittatura militare in Brasile? – sia su quello da “esportazione”, se pensiamo ai tu-per-tu con Miles Davis e Art Blakey, Oliver Nelson e Don Cherry. E il trio Codona con lo stesso Cherry e Colin Walcott, musica irrequieta che liberava un potenziale di esplorazione e fertilità ibrida rimasto inespresso persino nel jazz, fino a quel momento. Eppoi B.B. King, Paul Simon e i Talking Heads, o ancora Pat Metheny e Jean-Luc Ponty. Un crescendo giramondo che per altri versi e sentieri lo portò a frequentare anche un’Italia mediata dal suo amico promoter e fotografo Isio Saba, una storia fatta di tenere e sfrenate session con Antonello Salis al piano e alla fisarmonica, un traffico intenso di idee e di strumenti autocostruiti con il percussionista Peppe Consolmagno, come di effimere e a volte dispersive apparizioni qua e là, di riduzioni a “coloritura” che contribuirono comunque a fare di nana-vasconcelos-alle-percussioni una parola unica, un concetto-un’idea.

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Il pernambucano Nanà Vasconcelos era nato nel 1944 in piena terra del maracatu, un mondo parallelo e poliritmico abitato da forze sovrannaturali e organizzato in “nazioni”. Un mondo che può e deve avere il suo sbocco, il link con la rivoluzione pop-tropicalista che stava per investire la musica brasiliana. Nanà negli anni 60 è subito al fianco di Gilberto Gil e Gal Costa. Poi va a Rio e tra mille incontri corona il suo sogno di lavorare con Milton Nascimento alla sbalorditiva creatura pop che stava nascendo sotto al suo falsetto. Ed entra definitivamente nel metabolismo sonoro del paese, prima di iniettarsi anima, corpo e panoplia di marchingegni ritmici che solo lui aveva la capacità di far cantare, nella musica del mondo. Un viaggio che ancora il prossimo aprile lo avrebbe condotto nell’ennesima tournée asiatica.

Insignito di otto premi Grammy e per sette volte incoronato miglior percussionista dal Downbeat, la bibbia dei jazzofili, avrebbe meritato lauree ad honorem anche per il lavoro su strumenti negletti come la queixada de burro, una mandibola d’asino completa di denti che percossa ad arte libera sonorità affini a quelle di un vibraslap. E in particolare per aver strappato il berimbau, l’arco sonoro portato dall’Angola dagli schiavi, a una routine fatta di capoeira e roda de samba, per farlo diventare uno strumento di prima fila, sul quale valeva la pena sgobbare e provare a diventare maestri.

A Recife negli ultimi anni era diventato un po’ il re del carnevale e del maracatu, e si diceva felice: «Essere celebrato da vivo è già una vittoria, ma essere celebrato nel tuo paese è una vittoria doppia». Con buona pace del «quinto Beatle» George Martin, l’altro lutto musicale di giornata, i giornali brasiliani non hanno avuto dubbi sulla gerarchia da dare alle due notizie.
Quanto a Gil, che ministro della Cultura lo è stato, ha postato una vecchia foto in cui è al fianco dell’amico di una vita, incorniciata da una sua frase che ormai suona come un auspicio: «Il mio modo di pensare la musica continuerà a vivere anche dopo di me».