Per il 5 marzo avevo in programma per i miei studenti la visione di un film, il documentario di Agostino Ferrente: Selfie. Pochi giorni prima nella nostra città era morto un loro coetaneo, Ugo Russo, sparato da un carabiniere durante un tentativo di rapina, e in classe si era accesa la discussione sulle ragioni e i torti. Volevo mostrare loro quell’opera non soltanto perché racconta un episodio analogo, l’omicidio del 17enne Davide Bifolco, ma perché restituisce uno sguardo sull’adolescenza libero da giudizi e stereotipi mettendo in mano a due ragazzi amici di Davide uno smartphone con cui riprendere in modalità selfie se stessi e la realtà che li circonda. A scuola il 5 marzo non ci siamo andati, da allora siamo noi a guardare gli altri e noi stessi attraverso gli schermi dei telefonini.

IN «SELFIE», pur attraverso una propaggine tecnologica delle braccia degli adolescenti, a parlare sono innanzitutto i corpi: il corpo morto di Davide e i corpi dei due protagonisti, che si abbracciano, si prendono cura l’uno dell’altro, si abbandonano. In questo tempo che stiamo vivendo, invece, i corpi degli adolescenti e dei bambini sono scomparsi, non solo dallo spazio fisico delle città, ma anche dal discorso pubblico, dematerializzati e virtualizzati nella didattica a distanza. E insieme ai corpi sono diventati invisibili i loro bisogni, in conseguenza del generale appiattimento delle specificità sull’imperativo del restare a casa.

QUANDO SE NE PARLA, spesso lo si fa male, per esprimere indignazione verso promozioni assicurate ed esami semplificati, confermando il diffuso disprezzo verso i più giovani, innumerevoli volte descritti come viziati e sdraiati. O per sminuire il loro malessere: cosa sarà mai qualche mese a casa, si dice, hanno tutta la vita davanti. Si dimentica che un ragazzo e un adulto hanno percezioni diverse del tempo, che, per dirla con Pennac in Diario di scuola, «per lui il futuro sta tutto nei pochi giorni a venire». I giovani hanno urgenza di vivere e, a dispetto di quanto si può credere, non riescono a farlo senza la presenza dei corpi. «Siamo fisici», mi scrive un’alunna in un compito, «abbiamo bisogno di abbracciarci».

Oggi ragazzi e bambini rischiano di pagare un prezzo molto alto. Come spiegano gli psichiatri Mencacci e Migliaresi nel loro libro Quando tutto cambia. La salute psichica in adolescenza, è proprio a questa età che esordisce gran parte delle patologie psichiche, in quanto il cervello è particolarmente sensibile agli stress. L’eccessiva esposizione alle nuove tecnologie, aumentata nelle ultime settimane, crea uno stato di continua allerta, che ha conseguenze sull’attenzione, sulla memoria e sul ritmo sonno-veglia. Gli adolescenti ri-costruiscono l’immagine del proprio corpo in mutamento anche a partire dal confronto con i corpi dei pari, che ora appaiono filtrati e parcellizzati dalla mediazione degli schermi e mutilati delle dimensioni sensoriali del tatto e dell’olfatto.

CHI HA 15, 16, 17 ANNI fino a ieri aveva una vita che esplodeva per la prima volta, nuove scoperte, relazioni, sentimenti, ora sospesi in un’attesa estenuante. C’è chi si riorganizza, sostenuto da genitori attenti e da condizioni materiali favorevoli, e chi barcolla. Alcuni miei studenti lamentano panico, apatia, difficoltà a dormire. Nei loro scritti ricorrono parole come impotenza, paura, solitudine, immagini di città morte e di tunnel senza uscita. Quasi tutti ripetono come un mantra l’imperativo dello stare a casa. Mi conforta il loro senso di responsabilità, ma al tempo stesso la loro docilità mi inquieta. Non è l’adolescenza il tempo degli strappi?

LA LETTERATURA ci racconta come il «fuori» sia il territorio d’elezione della crescita. Dai classici come Il giovane Holden di Salinger a opere più recenti come il bel graphic novel Il muretto, i romanzi che hanno come protagonisti gli e le adolescenti ripropongono il topos della fuga dalle mura domestiche, che non sempre sono sinonimo di sicurezza e benessere, come vorrebbe farci credere la retorica dominante sulla quarantena, ma al contrario possono assumere connotati soffocanti quando non violenti. Ai nostri adolescenti invece è negata pure l’immaginazione non dico di una fuga, ma anche solo di una via di uscita, in una deriva moralistico-accusatoria che non ammette soluzioni alternative alla prolungata reclusione di milioni di persone nelle loro abitazioni.

DA INSEGNANTE mi muovo su un equilibrio precario nel tentativo di attribuire valore al contributo che i miei studenti stanno offrendo alla comunità e di collocare in uno spazio e tempo precisi il vissuto di oggi sottraendolo all’assolutizzazione, senza sminuire il loro disagio e innescare meccanismi di autocolpevolizzazione.

Ma non si può delegare al singolo (genitore o educatore, preferibilmente donna) la cura dei giovani, così come del disagio psichico che spesso è il prodotto di condizioni sociali. Con il prorogarsi delle misure di distanziamento fisico, si pone un problema di salute pubblica di cui deve farsi carico la comunità intera e di cui va chiesto conto in primis a coloro che hanno contribuito a devastare la sanità pubblica e la scuola. Ci hanno raccontato che dovevamo chiuderci in casa per proteggere gli anziani. È giusto. Ma dopo più di un mese diventa urgente trovare modalità che preservino il diritto di bambini e adolescenti a crescere sani, nel corpo e nella mente.