Se una parola suona azione, intervento, necessità di operare fattivamente e costantemente questa è la parola pace che indica lo strumento attivo d’ogni efficace affermazione, la risolutezza pratica, la capacità positiva che instaura e stabilisce, la energia determinata che riconosce, che accoglie e regola. Invece è con la parola guerra che si designano le più eminenti virtù operative, tattiche e strategiche, in grado, dicono, di realizzare le aspirazioni più nobili: giustizia, libertà, fraternità. Per instaurarle di fatto e non inseguire chimere, e difenderle, poi, da chi le avversa e contrasta.

Dunque è con opportuni strumenti di guerra che, affermata, ogni nobile istanza prende vita e si preserva. Si vis pacem para bellum sta scritto: se vuoi il bene non cessare di approntare il male. Bersagliati da una gragnuola continua di notizie, quotidianamente posti di fronte al fatto compiuto, constatiamo con il giovane Gramsci, storditi ed inerti, che «il mondo che ci circonda non arriva più ai nostri sensi, non li stimola a reagire». Reazioni indotte illudono una libertà apocrifa e, un giorno dopo l’altro, la capacità di giudizio ci appare come un compito sempre più arduo da perseguire. Pure, per quanti, numerosi, vi rinunciano e si allineano nella ripetizione di formulari (anche ‘nobili’), altri, esigui, si cimentano nell’esercizio costante del pensare. A Gramsci da Renato Serra erano giunti «concetti ricchi di visioni nuove e di sensazioni nuove» allora, nell’anno 1915, la guerra che incendia l’Europa. «Ma ora – scrive Gramsci – non possiamo aspettarci più nulla da Renato Serra.

La guerra l’ha maciullato, la guerra della quale egli aveva scritto con parole così pure». Serra muore sul Podgora il 20 luglio. In marzo aveva scritto: «La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo, è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo». Parole pure, non influenzate dalla retorica dei poeti e dei politici che inneggia agli eroismi, alle storiche missioni. Fulgidi destini, grazie alla guerra, si realizzeranno, essi dicono, finalmente. Serra chiamava letteratura «la vita intima e durabile e vera», il luogo della consapevolezza personale e della relazione civile. Qui si accoglie criticamente un retaggio e qui lo si supera, ma solo con l’elaborazione d’una spiritualità più alta.

E Serra scrive che «non c’è passione e non c’è serietà nella nostra arte, come non c’è curiosità vera e intelligenza profonda nella nostra critica», tanto che «i movimenti spirituali della generazione che ci ha preceduto non sono superati, ma piuttosto lasciati cadere dalla nostra volgarità». Accanto alla volgarità, la guerra. Che non elimina la volgarità, come non rinnova la letteratura. «È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra». La guerra non ha alcun pregio. Mai. E non detiene alcun valore. Mai. Macina nei suoi ciechi mulini infinite distruzioni e morte. Cancella anzitempo, con innumerevoli vite, i pensieri, i sentimenti. Quanto si rivela negli atti di coloro che vi sono coinvolti – nobiltà o coraggio, viltà o codardia – era già un contrassegno alimentato nello spirito di ciascuno.

Sicché la guerra non solo non è levatrice di futuro, ma, al contrario, sospende il corso d’ogni storia possibile. «Questa storia, che chiamiamo presente, – dice Serra – non è diversa da quelle, che crediamo di aver letto soltanto nei libri: partecipiamo all’una come alle altre con lo stesso titolo».

E le guerre presenti che in permanenza annientano, in teatri diversi, viventi e opere, ci impediscono oggi l’intelligenza dei tempi e bloccano il fluire delle relazioni consapevoli tra gli uomini. La guerra «tornando si urta alle stesse dighe, riporta agli stessi sbocchi» i liquami delle celebrazioni, dei monumenti, della fraseologia militarista. Quattro mesi prima d’esser ucciso al fronte, Serra sa bene che «né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità».