Dal prossimo lunedì comincerà a sparare il famoso bazooka di Draghi. Ovvero parte il Quantitative Easing: 60 miliardi di euro al mese per acquistare titoli di stato e non solo, almeno fino al settembre del 2016. Ma si andrà anche oltre, se a quella data l’obiettivo di portare l’inflazione al 2% non sarà raggiunto. Il solo annuncio ha creato immediata euforia nei mercati finanziari: spread in calo, rendimenti ai minimi o anche negativi, l’euro quasi alla parità con il dollaro, grandi potenzialità di rilancio delle esportazioni europee.

Ne potrebbe approfittare persino il nostro paese, se nella crisi e soprattutto per l’assenza di politiche industriali non avesse perso il 25% del proprio potenziale produttivo.

Tutto bene? Niente affatto e per diverse ragioni.

Nulla garantisce che la pioggia di liquidità sgoccioli fino alla economia reale. Anzi le esperienze di altri paesi e i precedenti interventi della Bce dimostrano che le banche drenano continuamente denaro e riducono al minimo i prestiti a imprese e famiglie. Tassi di interesse bassissimi o addirittura negativi dovrebbero in teoria orientare le persone verso i consumi e le imprese verso gli investimenti. Ma quando la depressione, la devastazione del tessuto produttivo e le politiche che le hanno generate hanno scavato nel profondo della condizione e del senso comune delle persone e degli attori economici, questo non avviene. Perciò alcuni economisti avvertiti hanno subito detto che il Qe per essere davvero efficace si sarebbe dovuto fare almeno due anni fa. Se la politica monetaria non basta, c’è bisogno di una politica fiscale espansiva, cioè di un intervento diretto dello stato, di un incremento della spesa pubblica in settori innovativi, socialmente e ambientalmente, e ad alta densità occupazionale. Precisamente quello che in Europa non avviene. In queste condizioni tassi di interesse più bassi favoriscono la rivalutazione di obbligazioni, specie a lungo termine, di azioni e del valore degli immobili. A meno della introduzione di una onnicomprensiva tassa patrimoniale , di cui non si vedono avvisaglie – ciò potrebbe semplicemente aumentare la forbice già molto aperta delle diseguaglianze sociali.

Cosa succederà quando il QE terminerà? Negli Usa il tapering, la diminuzione della iniezione di liquidità, è stato graduale. Ma lì abbiamo una Fed che risponde ad altre missions, fra cui l’incremento dell’occupazione, e non al solo controllo dell’inflazione al 2%, come nel caso della Bce. Poiché questa è indipendente dal potere politico ed è condizionata da proprie regole, potrebbe non avere quella elasticità necessaria per un morbido ritorno alla normalità, e quindi di non riuscire a governare gli effetti della bolla finanziaria da essa stessa creata.

Ma c’è un altro problema. Il Qe non è per tutti. Ne sono fuori Cipro e la Grecia. Quest’ultima perché è sotto revisione del programma economico ed i suoi titoli non sono investment grade, cioè appetibili per gli investitori istituzionali. Draghi a Nicosia ha ripetuto che la Bce deve seguire le “regole” perché non è “un’istituzione politica”. Pura ipocrisia. I mercati infatti hanno reagito alla vicenda greca assai meglio della politica europea, dominata dal pericolo del contagio non finanziario ma dell’esempio positivo della vittoria di Syriza. Draghi se la piglia con Varoufakis accusandolo addirittura di turbativa dei mercati perché il ministro delle finanze greco ha detto la verità. Cioè che il debito greco è troppo elevato per non essere risolto con un accordo politico e che tanto Spagna che Portogallo sono stati i nemici più acerrimi del suo paese nella trattativa perché temono la vittoria delle loro sinistre nelle prossime elezioni. Come si vede Draghi contraddice sé stesso e fa politica. Quella cattiva.

Se si limitasse alle decisioni economiche – visto che si lamenta che il governo ellenico si fa prestare a scadenze brevi fondi che le imprese statali hanno depositato presso le banche commerciali – potrebbe prenderne una semplicissima e dall’effetto immediato: alzare il limite di 15 miliardi attualmente imposto alla Grecia per l’emissione di titoli a breve. Non lo fa per un’interpretazione restrittiva dei Trattati, cioè evitare un finanziamento diretto o indiretto agli Stati. Ma se questo fosse, dovrebbe valere indipendentemente dall’ammontare complessivo delle emissioni. La partita è altrove. Ce lo dice lo stesso Draghi: la difesa strenua del Fiscal Compact, “la chiave della fiducia” delle politiche europee.