Impacchettate occultate rimosse – per quarant’anni e oltre – come qualcosa di proibito, come una scatola nera. Questo era accaduto alle opere di Edith Lake Wilkinson, artista americana vissuta gli ultimi trentadue anni dell’800 e i primi cinquantasette del secolo scorso. Perché? Cosa c’era di così dirompente nei suoi quadri impregnati di impressionismo e di Europa, dei paesaggi della sua terra, di coloro che amava? E a lei cosa era accaduto, e alla sua compagna? Qualcuno forse non aveva resistito a evocare lo spettro stigmatizzante della «pazzia»?
Da qui muove Packed in a Trunk («Impacchettato in un baule», appunto), The Lost Art of Edith Lake Wilkinson, il documentario di Michelle Boyaner, nel parterre del Festival Mix Milano, Cinema Gaylesbico e Queer, quest’anno alla sua 30ª edizione (dal 30 giugno al 3 luglio prossimi).
Dunque il baule, l’oggetto «anomalo». A guardare uno dei quadri di questa donna, si vedono «solo» artiste e luce. Creatrici della loro soggettività come dello sguardo. Che fosse questo? Figure ancora fatte di materia – gli abiti bianchi lunghi e affusolati dei primi del ‘900, pizzi adagiati sulla spiaggia, visi protetti da grandi cappelli altrettanto candidi e abbaglianti, e ciascuna china sulla propria tela a cogliere lo splendore inafferrabile della marina di Provincetown (località del Massachussetts nota, tutt’ora, per la bellezza anche culturale), eppure sono figure di donne che paiono sul punto di trasformarsi, riflessi di luminosità pura, iridescenza del mare … Osservatrice e osservata, artista tra le artiste, Wilkinson, era una tra queste. Una vita che prima si era espansa, la sua: dal trasferimento a 19 anni a New York a studiare arte, ai viaggi in Europa con la compagna Fanny, ai ritorni a Provincetown, fino a quando, nel ‘24, a 57 anni, improvvisamente era stata condotta dal curatore dei beni di famiglia in un ospedale psichiatrico a Baltimora. Per 33 anni, eccetto un trasloco in un altro istituto, sarebbe stata quella la scena unica della sua esistenza, fino alla morte, le sue opere rinchiuse in una soffitta.
Pazzia. «La pazzia, signore, se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda», così Shakespeare. Ma qui non si tratta di «pazzia» in senso inclusivo universale, come è contemplata ne L’accademia della follia, il documentario onesto e liberatorio di Anush Hamzehian, nei giorni scorsi al Sole Luna Doc Fest di Palermo (Trieste e i luoghi della rivoluzione di Basaglia e gli attori della speciale compagnia guidata da Claudio Misculin, conoscitori autoironici degli effetti della follia sociale, compreso il potere degli psichiatri, sulla propria). Qui si tratta di «pazzia» chiamata in causa nei secoli, e ossessivamente sulle donne, specie se artiste e/o omosessuali, ma non solo, di «pazzia» come l’ha vista Foucault, ossia ad excludendum «per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi»( secondo Montesquieu, citato nel documentario). Si intende stigma emarginazione disconoscimento che infinite donne hanno sentito avvilupparsi come una prigione sulla loro pelle, e penso a Camille Claudel, scultrice cui né la stessa famiglia né il mentore amato odiato, né le istituzioni francesi dell’arte riuscirono mai a perdonare la grandezza. E penso a Adèle Hugo, ai suoi sconfinati anni da reclusa, prima di «incontrare» Truffaut, ad Alda Merini, ma sarebbero tantissime …
Tornando a Wilkinson e al suo baule magico, la prospettiva da cui muove il documentario di Michelle Boyaner è terribilmente appassionante. Perché colei che la cerca, attraverso la patina in apparenza obnubilante del tempo, è una sua pronipote, Jane Anderson, divenuta a sua volta artista scrittrice e regista, cresciuta nell’orizzonte finalmente recuperato, negli anni ‘60, delle opere di Edith, nel suo «vocabolario visuale», nonché, dopo la lotta per il matrimonio omosessuale, sposa felice di una donna. Con un tono dunque volutamente lieve, ad ammorbidire l’impatto emotivo della storia, tra scampoli d’animazione e disegni di Edith, didascalie in bianco e nero da film muto e paesaggi da lei ritratti – quaderni suoi o della sua discendente – Jane, con la sua Tess, non lascia intentata alcuna pista, né l’ospedale psichiatrico, né il cimitero, né esperti d’arte, curatori di musei o una medium. Non solo. Crea per Edith un sito internet onde diffonderne l’arte in questo XXI secolo, fino a organizzare per lei una mostra a Provincetown, fino a scoprire che era stata precorritrice del gruppo della «white line» (linea di contorno ottenuta attraverso una tecnica di incisione, ndr). Allora, anche volendo restare agnostici rispetto alle “coincidenze”, sarà arduo, quando si scoprirà che il primo libro regalato da Edith a Fanny è lo stesso che Tess ha donato a Jane, o ancora circa l’edificio della galleria in cui si svolgerà la mostra in questo millennio … Allora non ci sarà «impacchettamento» che potrà impedire alle affinità elettive di dirsi anche attraverso il dolore insanabile di un secolo. Edith, la genia della lampada di Jane, sarà libera, per sempre.
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