Alla metà degli anni sessanta, in una collanina di Benevolo, Giovanni Klaus Koenig, il nostro più ferrato storico dell’architettura tedesca, scrisse che il regime nazista costrinse la maggior parte degli architetti razionalisti all’esilio, mentre altri rimasero in Germania ma «si ritirarono nel loro guscio»: Häring, Poelzig, i fratelli Taut e i Luckhardt, Böhm e Fahrenkamp. Scharoun si trasferì in campagna a disegnare, perché Hitler «sapeva che non poteva durare», e così fece Otto Bartning, che, espulso nel 1930 dalla Bauhochschule di Weimar, si occupò di svolgere incarichi per la chiesa evangelica. Entrambi furono tra «i pochi che sopravvissero alla tempesta». Mentre, però, la ricognizione storiografica sull’opera di Scharoun è stata ampia e capillare, non altrettanto si può dire per quella di Bartning.
Questa mostrava diverse lacune ed era condensata soprattutto alla sola produzione di chiese protestanti. È grazie al lavoro svolto tra il 2009 e il 2013 da Sandra Wagner-Conzelmann, che ha riordinato l’intero archivio Bartning, conservato alla Technischen Universität di Darmstadt diretta da Werner Durth, se oggi possiamo disporre di un’indagine così approfondita, come evidenzia l’esposizione Otto Bartning Architekt einer sozialen Moderne, ospitata alla Stadtische Galerie di Karlsruhe (fino al 22 ottobre) e il relativo catalogo, dove, oltre al contributo dei prima citati studiosi, occorre nominare quello prezioso di Wolfgang Pehnt, storico a noi già noto per le sue monografie su Schwarz, Kroll, Ungers, oltre che per i suoi saggi sull’espressionismo tedesco.
Karlsruhe – qui nacque Bartning nel 1883 – è la seconda tappa della mostra che, proveniente da Berlino, dove l’architetto fu operoso dagli anni trenta fino all’immediato dopoguerra, proseguirà a Darmstadt: la città dove Bartning visse tra il 1951 e il 1959 (anno della sua morte), abitando la Ernst-Ludwig-Haus sulla Mathildenhöhe, la «collina» famosa per la sua colonia di artisti lì attivi tra il 1898 e il 1914.
l Colloqui di Darmstadt
L’importanza della mostra consiste in una esplorazione della prolifica attività di Bartning non solo come architetto, ma anche come teorico, scrittore e infaticabile organizzatore di corsi di formazione ed eventi culturali. Nei primi anni cinquanta, solo per citare l’ultimo in ordine di tempo, promosse i famosi Darmstädter Gespräche. Nel 1951 ideò il simposio dal titolo Mensch und Raum (L’uomo e lo spazio), probabilmente il luogo di confronto più importante tra architetti, filosofi (Heidegger) e scrittori del dopoguerra. Tra le molte personalità che annualmente vi parteciparono vi fu Paul Celan, un anno dopo la morte dell’architetto tedesco, che aveva dato della sua ricerca poetica la definizione di «esplorazione nel regno delle parole», che crediamo valga anche per Bartning rispetto alle forme architettoniche. È un caso che l’esposizione del poeta rumeno dal titolo Meridian si tenesse proprio ai Colloqui di Darmstadt, ma l’analogia di carattere geografico potrebbe non terminare qui se associata all’iniziale prova letteraria dell’architetto tedesco: il racconto della sua circumnavigazione del mondo tra il 1904 e il 1905 dal titolo Erdball, Spätes Tagebuch einer frühen Reise (Globo, diario tardivo di un primo viaggio, 1947), al quale seguì la seconda parte, Erde Geliebte (Amante della Terra, 1955).
Abbiamo citato questi esempi per dare conto della ricca personalità intellettuale, e non solo artistica, di Bartnig, che la mostra spiega, insieme alla sua sensibilità fuori dal comune per gli aspetti pratici e semplici del vivere umano. Completati gli studi nel 1908, aderisce al Deutscher Werkbund, e nel 1919 entra nell’esecutivo dell’Arbeitsrat für Kunst con Gropius, Adolf Behne e il pittore César Klein: la formazione più radicale tra quelle nate nell’ambito dell’associazione degli artigiani tedeschi e dalla quale scaturì il programma gropiusiano del Bauhaus.
La sezione espositiva dal titolo «Rivoluzione dell’Arte» chiarisce con dovizia di documenti il ruolo di protagonista svolto da Bartning, in particolare il suo interesse didattico nella formazione di architetti e artigiani (Handwerk). Il periodo dell’Espressionismo, che in architettura si configura nell’inclinazione berso i temi archetipici, simbolici e ermetici, in sostanza nell’attrazione verso il mondo fantastico delle forme organico-vegetali (Haeckel) ma più specificatamente di quelle dell’inorganico, del «culto del cristallo», in Bartning non è mai il sogno utopico dell’«architettura alpina» di Bruno Taut o degli altrettanto immaginari edifici geometrico-cristallini di Wenzel Hablik: insomma non si esplicita unicamente in splendidi disegni o vivaci acquarelli, come quelli esposti e così somiglianti di Wassili Luckhardt e di Scharoun. In Bartning l’«opera d’arte totale »che traguarda il futuro si esprime in due singolarissime opere: la Sternkirche (1922), purtroppo rimasta modello in gesso, e la Villa Wylerberg a Kleve (1921-’24), l’unico edificio autenticamente espressionista.
Non si rimarcherà mai abbastanza il vigoroso mutamento di linguaggio di Bartning che si manifesta nel giro di un decennio. Sorprende il paragone tra le chiese realizzate negli anni dieci – dalla Friedenskirche a Peggau (1906) alla Heilandskirche a Krems (1913) – e la Sternkirche a pianta centrale, con le coperture voltate a sesto acuto e sorrette da pilastri parabolici che si elevano dal pavimento, oppure il confronto tra le nobili Landhaus berlinesi e la disarticolata Villa Wylerberg. Entrambe sembrano «il dono di un improvviso incidente», ha scritto Pehnt, «visioni demoniache», meglio ci suggerisce lo stesso Bartning nelle pagine del suo Erde Geliebte. Nel soffermarci ancora sulla sua chiesa stellare e il forte desiderio dell’architetto di sacralizzare lo spazio ecclesiale protestante (Dominikus Böhm in parallelo si interessa di quello cattolico) la mostra chiarisce bene il suo fondamentale apporto. Non lo soddisfa la soluzione di unire i momenti della celebrazione e della predicazione con l’altare-pulpito, quindi li separa e li dispone, su un asse centrale, poco distanti, su piani sfalsati: lo spazio così si dinamizza nel movimento circolare dei fedeli. Nel presentare le sue chiese all’Esposizione di Chicago Modern Ecclesiastical Art (1933) dirà: è «la comunione degli esseri umani che sperimentano l’onnipresenza di Dio in mezzo a loro che crea e santifica lo spazio», non altro. A guidarlo è un sano principio di realtà, che presto confliggerà con le forme libere e irrazionali esaltate, ad esempio, da Taut e amici nella corrispondenza utopistica della «Catena di Vetro» (Die Glaserne Kette). La Chiesa dell’Ascensione di Essen, la Gustav-Adolf di Berlino, ma in particolare la Stahlkirche di Colonia hanno messo da parte le suggestioni pittoriche dimostrando la presa d’atto delle possibilità offerte dalla serialità industriale, ossia dai processi razionali di produzione.
Dimensione umana, funzionalità
È questa disposizione alla «dimensione umana» (Wagner-Conzelmann) che permette a Bartning di costruire esemplari edifici per la collettività: dall’Istituto musicale di Francoforte agli Ospedali della Croce Rossa di Berlino fino all’edilizia popolare nei berlinesi insediamenti del Siemensstadt (1930) e, l’anno dopo, in quello di Spandau-Haselhorst, nei quali seguire le regole dello standard e della funzionalità non significa rinunciare all’estetica della forma. A guerra finita può riprendere il suo cammino lì dove si era interrotto. Nel 1959 la sua Siedlung al Siemensstadt può assumere la configurazione inizialmente prevista quasi di un crescent, mentre il suo programma di edilizia ecclesiastica (Notkirchen), che nel 1950 prevedeva solo la costruzione di 48 chiese, si amplia tra il ’47 e il ’53 a oltre cento, tanto che oggi per il loro alto valore culturale rientrano sotto l’egida dell’Unesco. Barting è stato un protagonista della modernità, come la stessa comunità internazionale gli riconobbe nel 1957 in occasione del suo coordinamento del piano urbanistico per l’esposizione dell’Interbau a Berlino. È un bene che la mostra di Karlsruhe abbia svolto l’impegnativo compito di farcelo riscoprire.