Sono ormai mesi che la lega professionistica del basket americano, la NBA, sta sostenendo la lotta e le istanze di Black Lives Matter. Una mossa che ha avuto vasta eco in ogni angolo del Pianeta. Numerosi giocatori hanno espresso in maniera molto diretta le loro opinioni sulla piaga delle discriminazioni razziali che ulcera il tessuto sociale degli Stati Uniti. Ma fino a poco tempo fa la situazione era ben differente e di alcuni temi all’interno della bolla miliardaria della NBA era meglio non parlare. Negli anni Novanta, la pallacanestro a stelle e strisce stava conquistando il mondo, anche grazie all’avvento del fenomeno Michael Jordan. Proprio nei Chicago Bulls, la squadra del più forte di sempre, giocava un’ottima guardia tiratrice di nome Craig Hodges. Uno che da piccolo accompagnava la madre alle marce promosse da Martin Luther King e che quando frequentava il liceo scriveva lettere ai politici per rivendicare i diritti della comunità afro-americana.

Il giorno in cui George Bush Senior accolse i Chicago Bulls campioni NBA alla Casa Bianca, Hodges si presentò vestito con un dashiki, chiaro riferimento alle sue origini africane. Anche a Bush fece recapitare una missiva tramite l’ufficio stampa della squadra, come raccontato nell’incipit di Io Craig Hodges, libro del 2017 ora disponibile anche in Italia grazie alla casa editrice Bradipo Libri di Torino. Scritto insieme a Rory Fanning, veterano della guerra in Afghanistan divenuto poi un attivista contro la guerra, è una fotografia quanto mai nitida di come la società americana sia ancora marcatamente razzista e di quanta indifferenza ci fosse nello sport professionistico fino a non molto tempo fa sull’argomento.

L’alba della carriera NBA di Hodges fu subito a tinte forti. Al sole di San Diego, dove aveva allora sede la franchigia dei Clippers, divenne la prima matricola della storia a diventare il delegato sindacale della sua squadra, con il compito non semplice di trattare con Donald Sterling, il suo datore di lavoro apertamente razzista – al punto tale che nel 2014 la stessa NBA gli diede il benservito.

Considerato troppo vicino alle posizioni di Louis Farrakhan e della sua Nation of Islam – sebbene Hodges non abbia mai sposato in toto la religione islamica – fu spedito a Milwaukee, dove iniziò a mettersi in mostra e a lottare per le posizioni di vertice del campionato. Nel 1988 il ritorno a casa. Lui, nativo di Chicago Heights, quartiere dell’est povero e nero della città, firmò un contratto per i Bulls, in rampa di lancio per riscrivere la storia del gioco. Una vetrina importante, che Hodges sperò di poter usare per le sue battaglie politiche.

Chiese a Michael Jordan di smettere di fare il testimonial della Nike, sposando così la causa promossa dal reverendo Jesse Jackson. Una mossa che si rivelerà fatale per il buon Craig. Jordan era molto più sensibile al fruscio dei dollari che alle questioni sociali e di fatto considerava Hodges uno scocciatore, un piantagrane. Nonostante l’importante ruolo giocato dal cestista-attivista nei primi due titoli dei Bulls, MJ lo ha «cancellato» dalla fortunata serie The Last Dance, lanciata su Netflix lo scorso anno. La reazione di Hodges al documentario sui generis fu a dir poco negativa, di certo perché riapriva delle ferite mai del tutto guarite.

Il colpo mortale alla sua carriera nella NBA si materializzò con una intervista rilasciata al New York Times nel giugno del 1992, in cui Hodges criticava Jordan e gli altri fuoriclasse neri del mondo professionistico per non aver preso posizione contro gli atti brutali commessi dalla polizia nei confronti di Rodney King. Hodges fu ostracizzato nonostante fosse uno dei migliori tiratori della lega, come dimostravano le tre vittorie consecutive nella gara da tre punti. Un titolo che a fatica poté difendere da «disoccupato», quando tutte le star NBA lo trattarono con freddezza. Meglio perderlo che trovarlo, uno che anteponeva i diritti ai soldi. E così Hodges fu costretto a raccattare contratti in giro per il mondo, con una tappa anche in quel di Cantù. Dove ovviamente fece sfracelli.

Una sorte simile a quella di Hodges toccò meno di dieci anni fa a un quarterback di football americano. Colin Kaepernick dei San Francisco 49ers prese l’abitudine di inginocchiarsi per protesta contro il razzismo durante l’inno americano. Un gesto stigmatizzato in varie sedi e che secondo un’opinione diffusa troncò le sue chance di giocare nella NFL, la lega professionistica del football. La stessa NFL lo scorso giugno ha chiesto scusa per la posizione troppo intransigente presa nei confronti di Kaepernick, mentre vari campioni NBA, tra cui Lebron James, sposavano la causa di Black Lives Matter. Udite udite, anche Michael Jordan ha donato ben 100 milioni di dollari alla campagna. Chissà se chiederà mai scusa a Craig Hodges…