«Io sono un cronista», dice Tommaso Besozzi al questore di Palermo Marzano. Così si legge in una pagina di La vera storia del bandito Giuliano (ora nuovamente pubblicata da Milieu, a cura di Enrico Mannucci, con prefazione di Ferruccio de Bortoli). Un ‘cronista’ che scrive la ‘vera storia’ non, dunque, la ‘cronaca’ della vicenda del celebre siciliano di Montelepre. Mi chiedo: in che rapporto pone Besozzi la cronaca con la ‘vera storia’? Quell’aggettivo ‘vera’ accostato all’assai impegnativo ‘storia’, oltre che una consueta formula giornalistica, piuttosto parrebbe una sottolineatura polemica.

«Si è tentato di spiegare il ‘fenomeno Giuliano’ in tante maniere», ma nessuna appare a Besozzi convincente. Tante, troppe nel corso di oltre quindici anni (dal 1943 al 1950 cioè dal momento in cui il ventenne Giuliano si dà alla macchia fino alla sua uccisione; e al 1959 l’anno in cui Besozzi licenzia il suo libro) le storie del bandito. «Salvatore Giuliano era un uomo affatto diverso da quello che comunemente si immagina. Era un brigante senza vocazione». La storia di Besozzi, per dirsi ‘vera’, intende riportare quella figura e le sue gesta nell’intreccio delle relazioni quotidiane, collocate in luoghi e giorni ben circostanziati, nel rapporto con gli uomini e le donne a vario titolo coinvolti. Protagonisti, comprimari e astanti si muovono sulla scena. Episodi precisi sono accuratamente descritti. Perché la verità su Giuliano che Besozzi racconta è la trascrizione di ciò che ha inteso e di quel che ha visto. «Per la madre del bandito, Turiddu era ‘uno sventurato e disperato picciotto’. Lasciamo da parte, per il momento, il primo di quei due aggettivi. Ma sul secondo si può essere senz’altro d’accordo». Ha inteso perché ha chiesto. Certo. E ha visto perché si è recato di persona. Ha incontrato, ha ascoltato. Il cronista riporta i fatti e i detti constatati e acquisiti sul posto. Un racconto viene trascritto come vien registrato un carattere, un atteggiamento che abbia significato. «Della sua figura fisica basterà dire quello che nelle fotografie non si può vedere. Aveva la voce calda, di tono basso e, cosa abbastanza insolita per un siciliano, parlava con lentezza. Camminava dondolando. In lui, dicono, quella maniera di camminare arrivava quasi alla caricatura». Dicono: la verità su Giuliano è la verità di molte voci. Una verità plurale che la scrittura non conduce a unità potandone i frastagli. Al contrario. Il cronista, quei molti e diversi suoni, ma tutti ‘veritieri’, dirige secondo una regola orchestrale. Per riscontri e corrispondenze, riprese, dissonanze e continui. E a ciascun elemento Besozzi conserva, tuttavia, piena e autonoma l’integrità nerrativa, fino a garantirne, per dir così, la libertà dell’assolo. Giuliano prende corpo nelle storie adiacenti, nei personaggi contigui, negli scorci di paesaggio, nelle situazioni laterali che il libro ci narra.

Il giovane Giuseppe Geraci, sequestrato, intrattenuto dal carceriere con la lettura a voce alta de La Pia de’ Tolomei e de I reali di Francia.

O il caso ferale del vecchio Calogero Scapo, recluso in una buca invasa dalle formiche. O il prelievo lampo del rais della tonnara di Castellammare del Golfo nel momento cruciale dell’avvio della mattanza: solo «su una barchetta, tenendo tra il pollice e l’indice uno spago al quale è legata una piccola pietra. Immerge quello scandaglio all’ingresso della ‘camera della morte’ e dalle vibrazioni che avverte sa se i tonni sono entrati, se sono grossi o piccoli, molti o pochi, se ci sono tutti o solo l’avanguardia, se nel branco c’è anche il delfino o il pesce spada». Senza l’ordine del rais la pesca è perduta. Prendere o lasciare. Paghi il proprietario il riscatto, pena la rovina. Il cronista Besozzi e il suo scandaglio: il 16 luglio del 1950 L’Europeo pubblica il suo famoso articolo sulla morte di Giuliano. Demolisce la versione ufficiale fornita dal ministro Scelba. Profila connivenze tra uomini dello stato e uomini della mafia. Ha ascoltato ‘parecchi civili delle case confinanti’, ‘il proprietario e i due garzoni del forno Lo Bello’, ‘l’avvocato De Simone e il colonnello a riposo Vizzinisi’. Titolo in prima pagina: «Di sicuro c’è solo che è morto».