«Sarà difficile che il lettore mi creda, ma nel rileggere questi versi mi son venute spesso le lacrime agli occhi. Il sentimento che mi ha commosso leggendo i vecchi versi di Sereni e di Gatto è un sentimento forte e, malgrado la molta retorica su di esso, raro: il ricordo della giovinezza e del suo tempo. Non è rimpianto, non è intenerimento: è ricordo e basta». Così, nell’aprile del 1973, Pier Paolo Pasolini, in una pagina che si legge nelle sue splendide Descrizioni di descrizioni. Nei versi dei suoi «fratelli maggiori», oltre a ritrovare ancora «intatta» la «realtà di quegli anni» – gli anni Trenta e Quaranta in cui i due poeti ricordati pubblicano le loro prime cose – Pasolini rivede anche tutti i «vezzi», i «manierismi», «tutte le cadenze obbligate che regolavano la scrittura dei poeti» di trent’anni prima: cioè di chi, come Vittorio Sereni, sembrava costeggiare da vicino certe linee ermetiche – in Frontiera – e chi, come Alfonso Gatto, della stessa grammatica ermetica poneva alcune indispensabili premesse. Sereni, già con l’altissimo Diario d’Algeria (1947) e poi naturalmente con Gli strumenti umani (1965) prenderà tuttavia una strada molto diversa, e destinata a segnare originalmente e a fondo la poesia italiana del secondo Novecento. Gatto sembra invece – pur con tutte le oscillazioni della seconda fase della sua parabola – restare soprattutto legato, almeno fra i suoi lettori più affezionati, a quelle prime prove. Un poeta certamente attento a Gatto come Andrea Zanzotto, vent’anni dopo la tragica scomparsa del poeta di Salerno – avvenuta in un incidente stradale, nel 1976 – richiamava, non a caso, anzitutto Morto ai paesi (1937) quale sua opera «basilare», e parlava di un progressivo avanzare e crescere della sua poesia sempre radicata nella «stessa inevitabilità di chiamata»: calcando molto, dunque sulla autenticità della sua vocazione lirica, molto più che sulla «cadenza obbligata» di pasoliniana memoria. Interessante che invece Pier Vincenzo Mengaldo – il Mengaldo antologista dei Poeti italiani del Novecento (1978) – individuasse nel Gatto del dopoguerra una maggiore sicurezza di stile, rispetto all’acerbità delle prime raccolte, e che segnalasse però anche l’incontro costante, o meglio il «conflitto mai risolto del tutto fra volontarismo tecnico-intellettuale e “dono”»: insomma fra naturalezza-ispirazione e, d’altra parte, mestiere.
Se la presenza nell’antologia di Mengaldo resta – oltre a una non rada serie di convegni e omaggi, specie nell’ultimo quindicennio – uno degli ultimi riconoscimenti critici di peso attribuiti a Gatto, ora – dopo la pubblicazione delle note e degli aforismi, riuniti pochi mesi fa da Aragno nei Pensieri – una nuova occasione di ridiscutere il ruolo e i risultati del poeta di Salerno la fornisce l’uscita della sua opera in versi – Tutte le poesie (pp. 812, € 26,00) – che Mondadori inserisce nella collana «Oscar Baobab». Forse anche l’idea di sostituire la suggestiva Natura morta con limoni di Felice Casorati – che campeggiava sulla copertina del vecchio «Oscar», più immediatamente facile da associare al Gatto classicamente, canonicamente ermetico, al clima entre deux guerres – e di affidare la bella copertina del volume all’Alfabeto artistico di Ivan Tresoldi – poeta e artista di strada milanese non ancora quarantenne – può avere la funzione o almeno l’effetto, anche involontario, di «avvicinare» Gatto, di riportarlo in qualche modo «fra noi» (anche se il formato, fortemente espanso e adatto comunque a far risaltare l’oggetto-libro, non è certo da bisaccia).
La riproposta è peraltro arricchita da alcuni elementi di novità: mentre si conferma la medesima e ampia introduzione di Silvio Ramat, il volume ospita anche una ventina di testi inediti, fra cui spiccano alcune poesie-ritratto o omaggi ad altri poeti, scrittori e artisti (Landolfi, Moravia, Bertolucci, e soprattutto Montale: «A non sapere, a non volere, quale / notizia può sorprenderci, che il male / di vivere non abbia fatta sua? Così fui solo a dirmi; vai, Montale, / con questa morte finalmente tua»; e insieme a questi, ecco una manciata di versi proprio per Pasolini, a rinforzare il già fortunatissimo topos della poesia-lamento per la sua morte).
In certo senso anche più suggestiva di queste pur interessanti addizioni è forse, per il lettore di Gatto, l’aggiunta delle «poesie fiabe rime ballate per i bambini d’ogni età» del Vaporetto, del 1963. Le risonanze e gli echi dell’età infantile sono del resto un tema decisamente pervasivo per Gatto – sin dall’inizio della sua esperienza di scrittura – e che si insinua spesso, e perlopiù con l’ammissione esplicita del soggetto, con un sapore di inevitabilità, nelle vicende del poeta da adulto. Già in Isola (1929-’32) il titolo di uno dei primi testi è proprio «Infanzia». Ma l’età magica appare subito striata d’altro, di inquietudine e malinconici presagi, se il «bambino invecchiato» – sulla falsariga del «fanciullo invecchiato» degli Ossi di seppia montaliani, ma come intenerendolo – è ritratto nell’abituale gesto di andare «a trovare i suoi morti / rinchiusi in armadi sconnessi»: ecco fermato, nel giro brevissimo di due versi, il cortocircuito costante, in Gatto, tra infanzia, morte e dimensione onirico-allucinatoria, che dà forma a scatti analogici per cui si è potuto parlare di un suo surrealismo. Così, se si attraversano ora i versi del Vaporetto, è probabilmente inevitabile sentir affiorare, dietro la superficie levigatissima delle rime e dietro i grumi più rilevati delle immagini, lo stesso e pur attenuatissimo senso di vuoto che offre il Gatto «maggiore». Basti leggere due stanze della «Filastrocca», a partire dal bellissimo attacco: «Avete visto che tutto è perfetto / nel mondo come un bacio, / la casa col suo tetto / il bimbo col suo letto / il topo col suo cacio?». Ma la chiusa ribalta, o almeno incrina, la compatta perfezione dell’inizio: «Continuate or voi la filastrocca. / Fanciulli ora vi tocca / spiegar la vela al mare, / mettervi in cammino / e forse non trovare / dove la luna e il sole / s’addormono vicino». La chiave finale è quella di una appena sussurrata mancanza. Difficile dunque resistere alla tentazione di vedere, anche nei versi più innocui e cantabili, la ferita dell’adulto.
Conferme se ne trovano – oltre che nelle poesie di Morto ai paesi, con una morte che allunga la propria ombra anche sugli elementi più vitali, come il mare, o sul ricordo – nei brevi paragrafi di riflessione sulla poesia, che sono pure allegati al volume. Qui, in sincronia con tanti esempi della grande lirica moderna, chi scrive versi è semplicemente colui che «nulla possiede che non abbia già amato e perduto». E la poesia, annota ancora Gatto, porta «con sé per il poeta l’incapacità di imparare a vivere». È insomma il luogo di una convivenza interminabile fra il bambino e l’adulto, su scia evidentemente leopardiana e poi pascoliana, come dimostra anche il continuo, ossessivo ricorrere delle figure del suo ‘romanzo familiare’ – la madre, certo, ma anche il padre, che proprio con la morte può in certo modo sovrapporsi alla figura materna, dando forma a una sorta di unico ‘mito di origine’ – nei suoi versi. «Il poeta – si legge nel congedo autoriale all’edizione del 1960 delle Poesie – manca a tutte le occasioni, anche se insiste nel cercarle»: come insistentemente cercata sarà sempre, da Gatto, la maternità protettiva della propria stessa voce e del proprio paesaggio, la pervicace «pazienza d’essere l’uguale / morto che canta ai suoi paesi».