Arriva da Calitri, nell’alta Irpinia, e si intitola Primo ballo: è il disco della Banda della Posta, composta da anziani musicisti provenienti più o meno tutti dalla comunità montana nella provincia di Avellino. Produttore ne è Vinicio Capossela, che a Calitri ci è andato spesso, terra di origine del suo amato padre Vito. Da un bel po’ Vinicio li portava con sé, i suonatori di mandolino, chitarra, fisarmonica, organo un po’ ageé, specie quando doveva fare delle comparsate particolari. Un omaggio a Matteo Salvatore, un salto al primo Maggio. Ora però è diventato un progetto vero e proprio, che ha persino deciso di produrre con la sua etichetta, La Cupa.

«Questo disco è un invito a ballare, a ballare abbracciati», spiega Capossela mordicchiandosi le unghie. «Un repertorio tradizionale riproposto per l’occasione che non ha niente a che vedere con la fede, si occupa della festa e del rito che veniva praticato per i due giorni seguenti al matrimonio». Produzione realizzata con la stretta collaborazione di Asso Stefana e Taketo Gohara, il disco contiene musiche da ballo provenienti da coordinate geografiche assai differenti, temporali più o meno prossime: gli anni Venti e Trenta del secolo passato. E misteriosamente giunte nella provincia irpina – così come in molte altre parti del mondo – attraverso connessioni non classificate, dal passaparola alla radio, dai primi supporti fonografici ai viaggiatori ed emigranti, una trentina di anni più tardi. Per Vinicio, poco interessato all’aspetto prettamente etnomusicale ma conscio della provenienza di polke, quadriglie e mazurke che i suoi soci suonano con viscerale e sincera dedizione, il disco è: «Un atto di amore rispetto a una tradizione che è sempre esistita e ultimamente poco praticata. Quando i tempi sono difficili bisogna ripartire dalla prima comunione, le nostre prime certezze di essere umani, soprattutto i primi momenti festosi che abbiamo vissuto».

Eppure ancora non si è del tutto placato il successo del suo ultimo, ingombrante lavoro, interamente dedicato a un’espressione sonora, terrena e sociale, che proviene dalla Grecia, il rebetiko, di radici ben più drammatiche. Un progetto che prosegue, perché Vinicio – ma nel corso dell’intervista ha preferito ancora non parlarne – ha appena finito di montare un documentario girato e scritto a quattro mani insieme a Andrea Segre. Un lavoro in cui raccontano, tramite la musica rebetika, storia e attualità della Grecia, paese simbolo della grande crisi che stiamo attraversando, girato in due settimane ad Atene, Salonicco e Creta.

Eppure nella corsa di Capossela una produzione, la prima della sua carriera, sulle musiche da ballo che accompagnavano le grandi feste dei matrimoni di una volta non stona affatto. «Sono entrambe musiche che si consumano per stare insieme, si praticano in un contesto dove c’è cibo, c’è corporeità. Non c’è distanza con il pubblico, che non è mai passivo. Entrambe hanno una funzione nel corpo della comunità che tiene viva una radice, un modo di affrontare la vita. Anche gli strumenti, il bouzouki e il mandolino sono parenti, con lo stesso tipo di cassa armonica, che in greco si dice scafo, come a svelare una cosa che prende il largo nella mareggiata del dolore o della festa e ti porta da un’altra parte». E Capossela continua: «La forma del bouzouki è come quella di una lacrima che quasi non vuole staccarsi dalla sorgente; il mandolino fa cose malinconiche ma mai struggenti, trilla come un usignolo, è spesso paragonato, per la forma e la pienezza, al lato che più amiamo della donne. Il rebetiko e le musiche da matrimonio di Calitri sono espressioni che vivono nella socialità, alle cui radici c’è l’uomo che incontra altri suoi simili. Entrambe hanno un repertorio che sopravvive da 80 anni e passa, oggi i pezzi durano un anno e poi vengono dimenticati. Il rebetiko, come poche altre forme musicali, coinvolge un orgoglio di appartenenza. Il punk greco suona il rebetiko, esprime un desiderio di anarchia e non gli serve suonare i Clash. Questa ritualità non viene mantenuta con lo stesso orgoglio rispetto ad altre musiche tradizionali».

Danze, canti e sensazioni che Capossela ha scovato per la sua curiosità morbosa. Queste del disco le ha recuperate perché la banda del paese si riuniva per diletto davanti alla posta del paese a suonare in attesa di ritirare l’assegno per la pensione. Una pratica che lo ha riportato a memorie profonde. «Per esempio la quadriglia durante lo sposalizio rappresentava un momento di contatto unico, durante il quale si cambiava continuamente partner, e durava anche ore. Abbiamo voluto così documentare queste memorie, anche facendo ricerche approfondite. Un avvocato del paese ci ha fornito una lista molto divertente in cui tutto il rituale del matrimonio era formalizzato: l’ambasciata, la parlata e tutte le diverse fasi, addirittura un tempo si segnavano i tempi, come al cinematografo. Il matrimonio viveva, proprio nel momento della festa, un momento liberatorio, era il punto di partenza di una nuova vita. Una volta gli invitati finivano madidi, consumati da una lunga ritualità durante la quale inghiottivano e digerivano la coppia e la avvolgevano in stelle filanti. Un disco che suona anche come una forte denuncia alla perdita di memoria civile di certa musica di oggi».