Nel 1946, a guerra ormai finita, la festa mobile – spentasi all’improvviso, in tutta Europa, nel turbine delle conquiste nazi-fasciste – si riaccese, in maniera repentina, nei salons eleganti di una Parigi liberata, oltre i sobri prospetti londinesi, nelle piazze, nei palazzi di un’Italia resa al cicaleccio brillante e alla mondanità cosmopolita, lontana dai fasti autarchici della crème mussoliniana.
Protagonisti vecchi e nuovi si imposero dunque sulle piste dei bal masqué, in un calendario a tal punto ingombro da contendersi presenze e partecipazioni fra una capitale e l’altra del vecchio continente, un amalgama equilibrato di squisitezze care al savoir-vivre aristocratico, mescolate agli eccessi in technicolor del jet set globale. Mentre pertanto sempre più americani compivano apparizioni smargiasse nell’opulenza sontuosa di banchetti o serate danzanti, esuli ed esiliati, eroi di guerra e refugés ritrovavano le abitudini di un tempo accanto a residenti resilienti o collaborazionisti d’antan, nelle arterie dei Grands Boulevards, sulle acque dei canali in Laguna, dentro ai portali dei palazzi barocchi stretti tra il Colosseo e San Pietro.
Fra le regine incontrastate di una stagione siffatta, descritta con scrupolo nei rotocalchi pastello della rinata editoria borghese, fu certo Leonor Fini: un’artista – nata a Buenos Aires nel 1907 ma cresciuta a Trieste ed educatasi oltralpe – la cui fama si era nutrita, durante gli anni trenta, nell’entourage sfrangiato del movimento surrealista e che, avendo vissuto il conflitto sulle spiagge rocciose del Giglio e poi nella Città Eterna disputata dagli Alleati, aveva fatto rientro al numero 11 di rue Payenne, in una Ville Lumière servita da sfondo per il suo debutto di pittrice, alla fine del 1932, lungo le pareti della galleria Bonjean, diretta da un giovane curatore rispondente al nome di Christian Dior.
Nel giungo del ’46, Leonor fu infatti ospite della principessa di Borbone-Parma per il Bal de Nuit in un celebre locale del Bois de Boulogne; e per l’occasione si presentò in una mise gotica con aureola raggiata di ali e una maschera in stoffa (fissata in uno scatto di Brassaï). Nell’estate seguente, la moglie dell’ambasciatore inglese, Lady Diana Cooper, la volle fra i suoi invitati per il Bal du Panache: la Fini non deluse le aspettative realizzando un abito in tulle, incrostato di foglie verdeggianti, perle di bigiotteria, farfalle in strass e dal teschio candido, smagliante di una volpe feroce. Nel 1948 si figurò gatta setosa per il Bal de la Violette, lunghi guanti neri in omaggio forse a Yvette Guilbert: «Life» l’avrebbe ribattezzata con una didascalia sulfurea «French Devil Cat». In gennaio, al Bal des Oiseaux – evento che le valse la copertina di altre riviste – fu la beniamina per l’anno nuovo del visconte Charles-Benoit d’Azy, ricoprendosi di penne verdi e bianche in un ironico costume da gufo menagramo. Si presentò poi in marzo come Persefone severa al Bal des Rois et des Reins, voluto da Étienne de Beaumont; una foto raggiante di André Ostier ne ricorda la parure aguzza di corna e piume, sormontata da una peineta andalusa.
Nei mesi a seguire, in un sempre più affollato carnet, avrebbe sfoggiato un vestito da unicorno per un altro intrattenimento della Cooper, una tuta da pierrot malinconico al Bal de la Lune sur Mer nel 1951, un completo domino per una soirée della contessa di Polignac: la Fini così, di tappa in tappa, confermava una passione dei travestimenti in grado di coniugare il penchant vezzeggiato per una teatralità debordante con l’abile gestione della propria immagine, con l’esibizione di un’enigmaticità di repertorio. Ricorda Peter Webb, il suo biografo più recente, citandone le parole in prima persona: «Attraverso costumi e maschere, sento di magnificarmi; e la cosa mi piace, per questo andavo alle feste… a volte ero così stravagante, così splendida che la folla si apriva per lasciarmi passare: con mia grande soddisfazione, ovviamente… Gli altri non sapevano travestirsi: così ero arrivata a influenzare tutto un giro parigino, per lo più di gente danarosa. Eppure, mai e poi mai, a queste feste, avrei voluto ballare. Mi sembrava una cosa sciocca; e se qualcuno mi invitava, pensavo: poverino!».
Tale agenda – in consonanza con l’umore paradossale e il narcisismo esplicito della dichiarazione – offre un ritratto puntuale della Fini, nel momento zenitale della sua vicenda umana e professionale; parabola che, sulla linea di altre esistenze coeve (in primis quella di Salvador Dalì, amico infedele della giovinezza di Leonor), espresse soprattutto una ‘presenza’, in dialogo serrato con il suo articolato universo di creazioni, tradotte non solo nel medium della pittura ma anche nell’attività di costumista e scenografa per cinema o teatro (collaboratrice assidua di Roland Petit e George Balanchine, avrebbe preso parte a pellicole di successo, come il Giulietta e Romeo di Castellani e l’8 ½ di Fellini).
La donna fu, infatti, una diva indiscussa sul gremito palcoscenico avanguardista: pupilla del Novecento di Achille Funi e contraltare polemico dei manifesti di Breton (a questi legata da reciproca antipatia e mutua diffidenza); amica di Max Ernst (oltre che sua amante fugace), di Henri Cartier Bresson, di Jean Cocteau e di Giorgio De Chirico; soggetto adorato per scrittori ed esteti, Paul Éluard o Alberto Moravia, Jean Genet o André Pieyre de Mandiargues; sorella e guida per un’intera generazione, quella di Leonora Carrington e Dorothea Tanning, di Fabrizio Clerici e Joseph Cornell. Leonor si impose, d’altronde, anche come volto, voce, fantasia incarnata per una società che – nelle pagine di «Vogue» o «Harper’s bazaar», nel glamour hollywoodiano o nelle confezioni della Schiaparelli – orientava il proprio gusto verso un surrealismo internazionale, sofisticato e prezioso, sognandosi immersa in un bric-à-brac di lusso o rabbrividendo di fronte a immagini di cerebrale erotismo.
In un simile contesto la Fini fu un’assoluta ‘contemporanea’, un arbiter rispettato in virtù dello charme del personaggio, della coerenza siglata del suo linguaggio figurativo: tuttavia, le medesime qualità – il suo ‘fare epoca’, per dirlo con un’espressione icastica – ne hanno segnato in qualche misura la (s)fortuna postuma, quella cioè seguita al 1996, anno della scomparsa della pittrice.
Ben venga dunque imbattersi (fino al 4 marzo) in una buona selezione del suo catalogo, nelle stanze intime di una sede inattesa quanto il newyorkese Museum of Sex, per una mostra curata dalla direttrice, Lissa Rivera, in conversazione con l’estate della Fini e la Weinstein Gallery di San Francisco: tanto più che il percorso, seguendo un filo sommariamente cronologico, sceglie di concentrarsi sulle composizioni più ambiziose, da una parte mettendone in ombra la produzione di ritrattista, dall’altra ricostituendo sequenze importanti, come quella composta da L’Alcôve (1941), Nu (1942) e Femme assise sur homme nu (1942). Si può dunque tornare a valutare, anche in una prospettiva odierna, un corpus tematicamente compatto, seppure aperto alla sperimentazione in termini di stile (si pensi alla cosiddetta ‘fase minerale’, inaugurata negli anni cinquanta); e per quanto il vagheggiamento di un’androginia primordiale, celebrato da Leonor in parole e icone, si coniughi difficilmente con la moderna teorizzazione del queer (secondo quanto suggerisce invece la Rivera), è indubbio che la femminilità oppositiva della Fini, alla base del suo operare e della sua iconografia ricorrente, debba essere contato di diritto fra gli esempi eloquenti nell’archeologia novecentesca di un’autonomia al femminile in ambito di creazione artistica, come già proposto da studiose della fatta di Whitney Chadwick sin dalla metà degli anni settanta.