Nabil Rajab ha pagato ancora una volta con l’arresto la denuncia della politica della monarchia assoluta del Bahrain. Scarcerato appena qualche mese fa, il direttore del Centro per i Diritti Umani nel Golfo, è finito dietro le sbarre per un tweet che ha messo a nudo una realtà che si vuole nascondere. Il Bahrain partecipa alla Coalizione capeggiata da Barack Obama contro lo Stato Islamico. Allo stesso tempo, ha scritto Rajab, il paese è un «incubatore ideologico» per jihadisti sunniti che vanno a combattere in Iraq e Siria. Non solo. L’attivista bahranita ha accusato ex dipendenti del ministero dell’interno di essersi uniti all’Isis. La polizia politica, fa capire Rajab, utilizza feroci leggi antiterrorismo per far tacere gli oppositori ma non muove un dito contro i predicatori che esortano al jihad. Predicatori che evidentemente servono alla monarchia per fomentare l’attivismo contro la maggioranza sciita della popolazione che – con il sostegno di esponenti sunniti democratici – da anni lotta per l’uguaglianza e un nuovo Bahrain. Per re Hamad bin Isa al Khalifa invece gli oppositori sarebbero solo dei burattini di Tehran e del movimento libanese Hezbollah, “sovversivi” che intenderebbero consegnare il Bahrain agli ayatollah.

 

Desiderosa di compiacere gli alleati americani – gli Stati Uniti in questo minuscolo arcipelago del Golfo hanno la base della V Flotta -, la monarchia al Khalifa il mese scorso ha aderito alla (presunta) Coalizione anti-Isis. Questo “impegno contro il terrorismo” si scontra con la presenza di numerosi cittadini del Bahrain tra capi e miliziani agli ordini dell’emiro dello Stato Islamico, Abu Bakr al Baghdadi. Che quella di Nabil Rajab non sia solo una tesi lo dimostra un video, messo in rete qualche giorno fa, in cui un ex tenente, Mohamed Isa al Binali, assieme ad altri bahraniti – Abu-Laden Albahraini, Abu-Alfida Al Salami and Qaswara Albahraini – esorta i sunniti del suo paese ad unirsi all’Isis. Al Binali un anno fa era all’Accademia Militare. A settembre le autorità hanno annunciato il suo licenziamento per “assenza prolungata” eppure già da quattro mesi si sapeva che il “tenente” si era unito all’Isis. Al Binali fa parte di una famiglia molto vicina alla monarchia ed è il cugino di Turki al Binali, un noto predicatore sunnita ritenuto un “consigliere” dell’emiro al Baghdadi. Arrestato più volte per le sue esortazioni al jihad regionale e globale contro gli sciiti e gli “infedeli”, Turki al Binali è stato liberato, ogni volta, dopo qualche giorno di carcere. Un video recente (https://www.youtube.com/watch?v=7CKv56mqPBU#t=61) lo mostra mentre tiene un raduno di protesta davanti all’ambasciata americana a Manama. La polizia resta a guardare mentre non avrebbe esitato a disperdere con la forza una pacifica manifestazione dell’opposizione. Peraltro i libri del predicatore al Binali, che incitano all’odio settario, sono disponibili ovunque nel paese dove invece sono oscurati i siti scomodi. Al movimento antagonista bahranita resta disponibile solo un giornale, al Wasat.

 

«L’arresto di Nabil Rajab non deve sorprendere, ormai la monarchia ha messo da parte qualsiasi idea di riforma ed è tornata al pugno di ferro. Purtroppo il mondo non guarda al Bahrain, a ciò che accade qui. Il re con la partecipazione alla Coalizione ritiene di essersi garantito un ulteriore via libera dell’Occidente alla linea dura all’interno del paese», si lamenta la giornalista e attivista Reem al Khalifa, rimarcando che a novembre oltre alle elezioni – destinate a riconfermare al potere la minoranza sunnita che appoggia il re – si terrà in Bahrain un importante vertice sulla sicurezza regionale. Nessuno – aggiunge la giornalista – ricorda più la sanguinosa repressione della rivolta di Piazza della Perla nel 2011, attuata dallo “Scudo del Golfo”, le truppe di pronto intervento del Consiglio della Cooperazione del Golfo dominato dall’Arabia saudita, protettrice della monarchia al Khalifa.

 

Tra la popolazione crescono nel frattempo frustrazione e rabbia, ben pochi dei bahraniti che lottano per cambiare il paese, credono ancora alle possibilità di un processo politico. «Dopo tre anni di proteste – conclude Reem Khalifa – di manifestazioni represse nel sangue (un centinaio i morti, ndr), di arresti e condanne degli oppositori, i bahraniti sono stanchi e delusi. I giovani guardano con scetticismo alla lotta pacifica». I social network perciò servono a organizzare le proteste ma anche a contestare chi è troppo soft con una monarchia che non esita ad usare la violenza settaria e a sbattere in galera, nel silenzio degli alleati occidentali, attivisti dei diritti umani prestigiosi come Nabil Rajab, Abdelhadi al Khawaja e sua figlia Maryam al Khawaja (libera su cauzione ma sotto processo).