Tra coloro che in Italia sanno come funzionano i salvataggi in mare dei migranti c’è sicuramente la Guardia costiera. Non fosse altro perché la stragrande maggioranza delle operazioni di search and rescue (Sar), ricerca e salvataggio delle imbarcazioni cariche di uomini, donne e bambini che partono dalla Libia dirette in Europa vengono predisposte dal Maritime coordination centre (Mrcc) che ha sede a Roma: il 90% del totale, secondo il rapporto 2016 della stessa Guardia costiera. Basterebbe questo dato per consigliare quanto meno prudenza nel far propri i sospetti con cui da settimane si accusano le Ong impegnate ai limiti della acque territoriali libiche di presunti contatti con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di essere umani.

Negli ultimi mesi gli interventi di soccorso sono diventati sempre più difficili a causa di fattori diversi. Prima fra tutte c’è la situazione politica del paese nordafricano. Per quanto il governo guidato dal premier al Serraj sia sempre più instabile, la sola possibilità di maggiori controlli sul territorio ha spinto fin dall’inizio dell’anno i trafficanti a far partire il maggior numero di barconi possibile, nonostante spesso le condizioni del mare non lo consentissero. Come dimostrano numerose testimonianze di migranti che, una volta in salvo, hanno raccontato di essere stati costretti a salire sotto la minaccia delle armi a bordo di gommoni o barconi capaci appena di stare a galla. E, contrariamente a quanto accadeva in passato, fatti partire anche di notte. «Rispetto al modus operandi degli anni scorsi – denuncia il rapporto della Guardia di finanza – si è registrato un incremento di partenze dalla Libia anche con condizioni meteo marine avverse ed in ore notturne, determinando un impegno pressoché costante nelle attività di coordinamento del Mrcc a favore dei mezzi impegnati nelle operazioni Sar. In passato invece le partenze avvenivano prevalentemente alle prime ore del giorno e con condizioni meteo marine maggiormente favorevoli».

Altro elemento di difficoltà, anch’esso in contrasto con quanto avveniva in passato, è la sempre più frequente assenza di telefoni satellitari, che ha reso ancora i viaggi ancora più pericolosi – vista l’impossibilità di chiedere aiuto e la conseguente maggiore difficoltà di intervento da parte dei soccorritori. Infine c’è la decisione dei trafficanti di riempire il più possibile i barconi. «Rispetto agli anni precedenti – scrive ancora la Guardia costiera – il numero dei migranti presenti a bordo dei gommoni è aumentato da circa 100 e circa 130/150 fino anche a superare, in qualche caso, le 200 persone con conseguente sempre maggiore probabilità di naufragio». Un elemento che ha contribuito a un notevole aumento delle operazioni di salvataggio, passate dalle 950 del 2014, e 905 del 2015, a 1.424 nel 2016.

Tutti questi fattori hanno contribuito a far sì che nelle acque internazionali di fronte alla Libia sia presente da tempo una eterogenea flotta composta da unità navali di diversa natura ma ugualmente impegnate nelle operazioni di salvataggio: dalla Guardia costiera (35.875 migranti salvati nel 2016) alla missione europea Sophia (22.885), dalla Marina militare italiana (36.084) alla Guardia di finanza (1.693), dalle unità di Frontex (13.616) alle motovedette dei carabinieri (174) alle unità militari straniere (7.404). A queste vanno aggiunte le navi mercantili (13.888) e, naturalmente, le navi delle tante Ong che nel 2016 hanno salvato 46.796 migranti. Dieci quelle impegnate nel Mediterraneo centrale: Moas, Seawatch, Sos Mediterranee, Sea eye, Medici senza frontiere, Proactiva open arms, Life boat, Jugend rettet, Boat refugee, Save the children.

Fatta eccezione per le «ipotesi di lavoro» sulle quali sta indagando la procura di Catania, finora nessuno ha avanzato sospetti sull’operato delle Ong. Non lo ha fatto il generale Stefano Screpandi, capo del III reparto operazioni del Comando generale della Guardia di Finanza, ascoltato il 19 aprile scorso dalla commissione Difesa del Senato che ha avviato un’indagine. Così come l’ammiraglio Enrico Credendino, comandante della missione Sophia, ha escluso che la presenza di navi nelle acque internazionali – a partire da quelle sotto il suo comando – possa rappresentare un «fattore di attrazione» per i migranti. «Quando c’è stata l’interruzione di Mare nostrum e prima di Mare sicuro il numero dei migranti è aumentato, non diminuito – ha ricordato -. Di certo i migranti non partono perché ci sono le imbarcazioni in mare, ma perché ci sono guerre, terrorismo, mancanza di acqua e cibo». Sarebbe bene per tutti non dimenticarlo.