La chiamata a una mobilitazione per la pace del prossimo 25 gennaio è il naturale punto di caduta di una preoccupazione crescente. Il blitz del presidente Trump e l’uccisione del generale iraniano Soleimani è stato un crimine di guerra compiuto in violazione della sovranità dell’Iraq. La sola lettura geopolitica fatta dai media e dagli analisti, che tiene conto unicamente degli interessi degli Stati e dei governi, non basta a descrivere e capire quanto sta accadendo nell’area mediorientale, attraversata da mobilitazioni popolari di cittadini che reclamano diritti sociali, libertà, democrazia e pace.

È palesemente riprodotta la divaricazione tra politiche dei governi e bisogni dei governati, fenomeno globale ma qui accentuato dalla non democraticità dei sistemi. In Iraq, Iran, Siria, Libia, Yemen cambiano i giocatori, si scambiano i ruoli, ma la partita è la stessa. Nella crisi del multilateralismo potenze regionali e globali si contendono con la guerra aree di influenza sulla pelle delle popolazioni locali. La mobilitazione non poteva non essere che transnazionale: per questo anche in Italia abbiamo scelto la data del 25 gennaio, chiamata dai movimenti statunitensi contro la guerra.

L’appello, lanciato una settimana fa da un nutrito gruppo di associazioni e reti della società civile, dal titolo «Spegniamo la guerra, accendiamo la pace», ha avuto da subito un grandissimo numero di sottoscrizioni perché ha saputo intercettare una preoccupazione diffusa per il pericolo di un escalation militare e il bisogno di uscire dall’angolo narrativo della «ragion di stato» per focalizzare invece l’attenzione su chi la guerra non decide di farla ma la subisce drammaticamente. Non è un appello generico, pone delle richieste circostanziate tanto alle istituzioni internazionali quanto al governo italiano.

Chiediamo che l’Unione europea, nata per difendere la pace, assuma una forte iniziativa con azioni diplomatiche, economiche, commerciali e di sicurezza, miri ad interrompere la spirale di tensione e costruisca una soluzione politica, rispettosa dei diritti dei popoli, dell’insieme dei conflitti in corso in Medio Oriente e avvii una rapida implementazione del Africa Plan.

Chiediamo al governo, tra le altre cose, di opporsi alla proposta di impiego della Nato in Iraq e in Medio Oriente, negare l’uso delle basi Usa in Italia senza mandato Onu, bloccare l’acquisto degli F35, fermare la vendita di armi ai paesi in guerra come sancito dalla L. 185/90, richiedere una missione di peace-keeping a mandato Onu ed inviare Corpi Civili di Pace, aderire al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari. E il governo non dimentichi che proprio il 25 è il quarto anniversario del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni al Cairo: sono quattro anni che siamo senza verità dal regime egiziano.

È una mobilitazione orizzontale, diffusa nelle città e nei territori, con modalità che ciascuno saprà darsi in ragione delle esigenze locali, che supera la divisione tra promotori e aderenti.

Siamo tutti promotori, condividiamo tutti la responsabilità di questo impegno e, ad oggi, siamo tanti: oltre 90 organizzazioni e reti nazionali e circa 200 associazioni locali andranno a comporre il quadro di iniziative che stanno prendendo corpo in tutto il mondo. 79 città negli Usa scenderanno in piazza e nel resto del pianeta è un fiorire di manifestazioni: da Toronto a Yerevan in Armenia, da Berlino a Il Cairo, da Oita in Giappone a Liverpool, da Lubiana a Kampala in Uganda, da Torun in Polonia a Auckland in Nuova Zelanda. Non c’è alcuna ansia da prestazione, ma la forte consapevolezza che il riequilibrio di una narrazione politica pubblica debba passare anche attraverso la riappropriazione dei luoghi quotidiani della vita, le nostre agorà cittadine.

* Responsabile pace, diritti umani e solidarietà internazionale dell’Arci