«Lanciate un messaggio a Bruxelles, che capiscano anche loro!». Da due mesi, da quando il parlamento di Budapest ha dato il suo via libera al referendum per decidere se accogliere o meno quote di migranti come deciso dalla Commissione europea, in tutta l’Ungheria è possibile vedere enormi poster che invitano i cittadini alla rivolta contro l’Unione. E adesso gli ungheresi sanno anche quando potranno esprimere la propria volontà: il 2 ottobre prossimo, come ha reso noto ieri il capo dello Stato, Janos Ader. Votare no al referendum, ha spiegato nei mesi scorsi il premier Viktor Orban, promotore della consultazione, sarà come votare «a favore dell’indipendenza dell’Ungheria e per far valere il diritto di scegliere con chi convivere».
Toni nazionalistici, che sottolineano l’insofferenza sempre mostrata da Orban verso la politica di accoglienza dei profughi adottata dall’Ue nel 2015, e non a caso fatti propri dagli estremisti di Jobbik (secondo partito, dopo la Fidesz di Orban, con il 21% dei voti). Toni che tornano anche nel quesito referendario, formulato in materia tale da rendere praticamente scontata la risposta: «Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?», è la domanda che gli ungheresi troveranno sulla scheda.
Dopo la Brexit, la nuova consultazione rischia adesso di allungare nuove ombre sull’Unione europea, rendendola di fatto sempre più debole. Anche perché il 2 ottobre si voterà anche per il nuovo ballottaggio in Austria tra il leader di estrema destra Norbert Hofer e il verde Alexander Van der Bellen, con il primo che non fa certo mistero della sua voglia di uscire dall’Ue.
Tutte paure che ieri, una volta apprese le notizie provenienti da Budapest, Angela Merkel ha cercato di ricacciare indietro mostrandosi calma: «Si sapeva che in Ungheria ci sarebbe stato un referendum sui profughi, ora sappiamo quando», ha detto la cancelliera. «È una domanda sull’attuale politica del governo e anche la posizione del premier ungherese è nota, quindi non mi attendo alcun cambiamento rispetto alla situazione attuale».
In realtà le cose stanno in maniera diversa, e la cancelliera lo sa bene. E’ la prima volta che gli europei vengono chiamati a giudicare la politica sull’immigrazione della Ue e un eventuale risultato negativo potrebbe fare scuola, inducendo altri paesi a seguire l’esempio di Budapest. A protestare contro le quote obbligatorie di accoglienza dei profughi (160 mila in due anni, ma finora ne sono stati ricollocati meno di duemila) sono infatti tutti i paesi aderenti al blocco di Visegrad (oltre all’Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) e per questo – come Budapest – anche Bratislava ha denunciato Bruxelles alla Corte di giustizia europea. Come già accaduto per la chiusura delle frontiere, potrebbe adesso verificarsi un nuovo effetto domino con nuovi referendum che incrinerebbero ulteriormente la capacità di Bruxelles di imporre le proprie decisioni agli Stati membri.
Nel 2015 sono stati 400 mila i migranti che hanno attraversato l’Ungheria diretti verso il nord Europa, ma solo una minima parte si è fermata e stando ai dati diffusi a metà giugno da Eurostat, nel paese oggi sono presenti 693 richiedenti asilo ogni milione di abitanti. Orban, che proprio con la crisi dei migranti ha visto crescere ancora la sua popolarità, approfitta dell’occasione per soffiare sul nazionalismo sfruttando anche la paura del terrorismo. Bruxelles, ha detto il premier agli ungheresi, non ha il diritto di «ridisegnare l’identità culturale e religiosa dell’Europa». Che oggi non sia l’unico a pensarla così non è probabile, è praticamente una certezza.