La manifestazione dello scorso sabato 12 ottobre sulla Costituzione italiana è stata molto sottodimensionata dai media italiani. Rapidi passaggi nei telegiornali (Tg1 e Tg2 di prima serata non avevano nei titoli di testa la notizia, che arrivava dopo 18 minuti; meglio il Tg3, che comunque la collocava al sesto su sette titoli); cronache sui quotidiani di maggiore diffusione ben lontane dalle prime pagine – pag. 11 sul Corriere della sera e pag. 12 sulla Repubblica- e abbondante uso della tecnica di mischiare la notizia con la critica.
Il famigerato «panino». Eppure, all’appello di don Ciotti, Landini, Rodotà avevano aderito molte migliaia di cittadini, senza grancasse né particolari battage pubblicitari. Il tema è troppo ostico per il «clima di opinione» che si è determinato in Italia. Sul percorso delle «larghe intese» non ci possono essere ostacoli e il dissenso non è gradito. 440.000 persone hanno aderito all’appello lanciato dal Fatto quotidiano, ma la obiettiva notiziabilità di una così rilevante vicenda ha dovuto fare i conti con la routine del «pensiero unico« di palazzo Chigi. Sì, perché la coalizione al governo è intrinsecamente fragile e ogni crepa rischia di sconvolgerne gli equilibri. La modifica della Costituzione è diventato un mantra ideologico, che va ben al di là del contenuto manifesto del problema. La modifica dell’articolo 138, vale a dire il cancello messo dai costituenti a difesa da facili incursioni, è una tipica offensiva a doppia lettura: l’obiettivo in senso stretto e il segnale premonitore del traguardo ancor più ambizioso: il presidenzialismo. Va detto, tra l’altro, che se non fosse questo il senso ancora «coperto» dell’iniziativa, un simile accanimento risulterebbe persino incomprensibile.
Ecco. Nel passaggio alla terza (?) repubblica il dibattito –per dirla con Nanni Moretti- non si deve fare. Ecco, allora, che alcuni dei grandissimi costituzionalisti italiani diventano “dissidenti”, magari un po’ vecchi. Peccato che nel corteo sfilassero tantissimi giovani..
Un altro caso di scuola tocca la tragedia degli sbarchi degli immigrati. Dopo i drammi ripetuti nel mare di Lampedusa si è scoperto il vulnus grave introdotto nell’ordinamento dalla legge Bossi-Fini. Richiami ed appelli. Come mai, però, i referendum radicali che chiedevano l’abrogazione di quell’assurda normativa sono stati condannati al silenzio? E infatti, non è stato raggiunto il tetto necessario delle firme. Se solo la Repubblica ci avesse pensato prima…
L’agenda setting dei media (prevalenti) spesso è cinica e spietata. Salvo nobili eccezioni –meno male che r-esistono- i conflitti sociali assurgono a notizia rilevante quando evocano drammi, morti, casi al limite, disperazione.
Oppure. La discussione sull’indulto o sull’amnistia è un tema da pastone politico o è parte di una documentazione accurata sullo stato delle carceri e sulla tipologia della popolazione che le abita? E così via. L’informazione critica è sempre più difficile, salvo che sia collocata dai palinsesti in ben determinati (e isolati) programmi, sui quali è sempre pronta la polemica, per non dire la censura: quella politica o quella «di mercato», attraverso l’uso temerario delle querele. E’ in corso una insidiosa omologazione culturale, che rimanda indietro alla seconda metà degli anni settanta, all’epoca dell’unità nazionale. Ma allora il quadro sociale e culturale era assai differente. Quando si dà la colpa alla rete e a internet per la crisi dei quotidiani – il rapporto Censis-Ucsi ha recentemente segnalato che le vendite sono calate del 19,2% dal 2007 ad oggi- si rifletta seriamente sulla perdita di prestigio dovuta proprio al crescente conformismo dell’offerta. Tralasciamo, per non ripeterci troppo, sulla latitanza delle Autorità che dovrebbero salvaguardare il pluralismo. Un moto di rivolta pacifica, però, si rende urgente. Il 3 ottobre del 2009 si celebrò una mobilitazione magnifica, conclusasi sempre a piazza del Popolo di Roma, in difesa della libertà di informazione, dell’articolo 21 della Costituzione. Non è venuto il momento di immaginare un bis?