Due creature giungono dallo spazio e rischiano di avere la peggio durante l’ingresso nella nostra atmosfera. Traumi e ustioni, perdita di memoria e bruciature orribili non li fermano, in quanto hanno il compito di far resoconto in forma di musica di quanto vedono accadere sulla Terra. Per far questo assumono sembianze umane ma sono costretti a celarsi sotto enormi bendaggi che ricoprono completamente i loro corpi, per non spaventare i terrestri che incontrano. Il volo pindarico in questione, non è altro che l’ideazione estroversa e visionaria del progetto discografico Ikoqwe composto dai musicisti Pedro Coquenão e Luaty Beirão. I due, mai banali nelle singole carriere, quando uniscono le forze divengono un vero e proprio inno alla creatività e alla militanza artistica. Ancor più se l’oggetto del loro interesse è l’Angola, che oltre ad essere terra madre per entrambi, nel trasognato e cosmico mondo delle creature astrali che incarnano diviene il luogo dove svolgere la loro ricerca interstellare.
Il loro nuovo disco, The Beginning, the Medium, the End and the Infinite, composto da undici brani, si ascolta con facilità e lascia una sensazione di freschezza e piacevolezza diffusa, grazie a una riuscita miscela di hip hop ed elettronica percussiva, valida sia nei passaggi più introspettivi che in quelli smaccatamente orientati al dancefloor. Palesa quindi una fruibilità per certi versi quasi pop, che in realtà cela una ridda di contenuti, significati, suoni e linguaggi a dir poco sorprendenti. Portoghese, inglese, slang angolano e idioma umbundu, assai diffuso a Luanda, diventano chiavi melodiche e linguistiche che riescono in modo simultaneo a denunciare iniquità figlie del neocolonialismo e a permettere al corpo di danzare. Un magma sonoro tenuto assieme dalla roots music locale, da loop sintetici e dal materiale sonoro rintracciabile presso la Ilam (International Library of African Music) di Grahamstown, Sudafrica, fondata nel 1954 dall’inglese Hugh Tracey.

Le vostre famiglie hanno avuto un peso nella formazione musicale?
PC: Sì, la famiglia mi ha influenzato enormemente. Principalmente mia madre, ma anche mia zia e mio zio. Lo hanno fatto con i loro dischi e l’amore per la musica, ma soprattutto come tutto questo fosse sempre stato associato sia alla danza che allo stare insieme. E nonostante sia cresciuto a Lisbona, lontano dall’Angola, l’intensità di tale vissuto è stato un modo per rimanere in contatto. In casa i dischi che suonavano erano molto diversi dalla tipica famiglia portoghese. Al posto della musica brasiliana e del merengue, c’erano suoni progressive e psych.
LB: Sono nato in una famiglia di classe media con un notevole accesso alla musica da ogni angolo del mondo, quindi capitava che in casa il nonno suonasse dischi degli Shadows, dei Pink Floyd o anche dei Soft Machine. Nel mentre papà metteva cose di Vinicius de Moraes e Stan Getz, e la mamma al contempo tirava fuori un album di Stevie Wonder. Tutto questo veniva intervallato dai suoni angolani del semba e da quelli quasi jazz di artisti come André Mingas e Waldemar Bastos.

I primi passi in musica?
PC: Ho iniziato con i nastri, ora ho un laptop che suppongo sia il mio strumento principale. Comunque i synth sono sempre stati fondamentali, esattamente come la drum machine e il basso. Personalmente preferisco non dare molta importanza allo strumento anche se può influenzare il modo in cui lo gestisci. Mi concentro di più su ciò che devo condividere ed esprimere artisticamente.
LB: Con la voce e la scrittura. Così ha voluto il destino e, lo ammetto, anche un po’ la mia pigrizia. Di conseguenza, gli unici strumenti sono la mia voce e i miei testi. Non suono nulla, né analogico né digitale.

Quale è la genesi di Ikoqwe?
PC: La si può trovare nella nostra amicizia e nell’interesse comune sul come e in che modo viviamo su questo pianeta.
LB: È rintracciabile nell’anno 2004, quando ci siamo incontrati per la prima volta e abbiamo iniziato a creare un legame. Da allora facciamo musica insieme. Di conseguenza, quando il concetto di Ikoqwe si è materializzato nelle nostre menti, le cose si sono sviluppate in modo naturale.

Dal nuovo disco emergono ripetutamente stralci di kuduro sound e vecchie registrazioni sul campo dell’etnomusicologo Tracey. Come mai questa scelta?
PC: Non siamo sicuri che il kuduro sia visibile in questo disco. Ma forse la domanda spiega perché potrebbe farne parte. Immagino che tu presuma che qualsiasi cosa angolana o della nostra diaspora, includa sapori angolani. Potresti avere ragione. Viene naturale pensarlo. Le registrazioni sul campo sono stata utilizzate come tentativo di tracciare e indicare le mappe musicali della musica tradizionale angolana. Sai, molte persone campionano field recordings senza riferimenti. Nel disco invece abbiamo avuto la possibilità di usarli grazie a tutti le informazioni dateci dalla Ilam e anche grazie ai nostri buoni amici della label Beating Heart e della famiglia Tracey. Quindi, invece di campionare semplicemente qualcosa che suona bene, abbiamo scelto storie e suoni specifici che provengono dal paese in cui siamo entrambi nati. Per noi, è un tributo, un contributo alla memoria e un ringraziamento sia al lavoro della Ilam che a quello di Tracey, che ha registrato e archiviato suoni preziosi.

Che avete incluso all’interno dell’album «The Beginning, the Medium, the End and the Infinite». Tra i brani migliori spiccano «Quarantena», «Bulubulu», «Vai ce c@n@!» e «Outra cidade (Another Town)». Potete raccontarceli?
PC: Luaty aveva questo testo sulla pandemia, che poi abbiamo chiamato Quarantena, su cui mi ha chiesto di fare qualcosa. Alla fine è stato il mio primo boom-bap suonato dal vivo, dove ho incluso anche una marimba mandata in distorsione. Ragionandoci sopra, abbiamo pensato che fosse davvero un’incisione buona per Ikoqwe. Diversa è la storia che ci ha portato a scrivere Bulubulu: la canzone è stata creata in un pomeriggio. Abbiamo iniziato usando la parola «bulubulu», che tradotta dalla lingua kimbundu in inglese suona come «almost there» («quasi arrivati», ndr), su cui abbiamo innestato un loop che ci ha fatto viaggiare così tanto, che a un certo punto Luaty si è addormentato. Questo è riportato nel testo, ed è stata la più divertente da realizzare perché quasi inspiegabile da raccontare.
LB: Vai de c@n@! è la canzone che racconta la storia di Ikoqwe e su quale sia stata la prima impressione avuta riguardo il pianeta Terra. Nei fatti è il brano più vicino ad essere la nostra biografia. La parte strumentale è stata lavorata con gli Octa Push, due talentuosi fratelli di Lisbona che hanno un suono unico e meritano di essere apprezzati per quanto fanno. Outra cidade (Another Town) è nata diversamente. L’idea è arrivata mentre parlavamo di come la struttura di una città per come la conosciamo, abbia fallito e continui a fallire. I testi sono suggestioni e osservazioni sulla necessità di trasferirsi in un’altra città.
Il titolo dell’album è un esplicito riferimento al teorico delle comunicazioni sociali Marshall McLuhan. È un modo per rendere politico e sociale il vostro lavoro? E se sì, perché?
PC: Non è così profondamente incentrato su McLuhan. È solo un modo di pensare che risuona nel disco. Non è una bibbia o qualcosa che seguiamo, ma sicuramente ci piace ciò che dice, ci ha influenzato, quindi ci è sembrato naturale rendergli tributo. Sai The Beginning, the Medium, the End and the Infinite non è un disco nato intenzionalmente per essere politico, in quanto l’impegno sociale per noi fa parte dell’essere cittadini. Per quanto ci riguarda, non è possibile solo divertirsi e ballare. Queste sono cose essenziali per noi esseri umani, esattamente come lo è essere stupidi ed essere impegnati. Come puoi non essere sociale e politico, in questi tempi?

LA BIOGRAFIA
Il duo Ikoqwe, nome di riferimento della nuova scena lusofona, è composto da Pedro Coquenão e Luaty Beirão, angolani residenti a Lisbona. Il primo è noto col nome d’arte Batida e vanta una carriera discografica attiva dal 2009. Le migliori pubblicazioni sono rintracciabili con Batida del 2012 e Dois del 2014 entrambi per Soundaway. Interessante l’esperienza di Konono N°1 Meets Batida del 2016 (Crammed). Beirão, conosciuto con l’alias Ikonoklasta, è in giro dai primi anni Duemila ed è artista estremamente prolifico. Oltre ad un libro di versi e poesie, tra le tante uscite segnaliamo nel 2004 la presenza nel collettivo Conjunto Ngonguenha con il riuscito album Ngonguenhação. Nel 2006 pubblica As melhores coisas da vida são de graça; nel 2007 in veste di videomaker è dentro il videodoc Rádio Fazuma, la cui colonna sonora è curata proprio da Batida. Di valore l’autoproduzione Ikonodamus del 2008 e l’ep del 2018 Meio demónio.